Riportare in Italia le mille fabbriche sparse nel mondo

Dopo il colpaccio della Fiat che ha inglobato Chrysler, confermandosi una delle pochissime multinazionali italiane, si impone una riflessione sul nostro modello industriale, fatto di tante piccole e medie imprese. Autentiche eccellenze che producono, esportano, guadagnano, ma delocalizzano. Come fanno gli Stati Uniti, è necessario che tornino a produrre qui. Ma ci vuole una politica in grado di favorirlo.

“L’Italia non è il Paese dell’industria, anche se abbiamo avuto e abbiamo grandi aziende industriali: è il Paese degli artigiani e delle botteghe, delle fabbrichette, delle tradizioni locali. È la nostra forza, è quel che sappiamo fare meglio di tutti”. A dirlo è uno come Domenico Dolce che, con il socio Gabbana, non ha certo né una “bottega” né una fabbrichetta ma una realtà da quasi un miliardo di euro di ricavi. Che sono molti nel settore della moda e nel contesto italiano; ma se guardiamo il mondo…

Nei giorni scorsi è andata in porto un’operazione industrial-finanziaria epocale per la nostra economia. Fiat è riuscita ad inglobare un colosso dell’auto come Chrysler, ridiventando uno dei protagonisti di quel mercato proprio quando pareva avviarsi lungo il viale del tramonto. Ma, ad onor del vero, l’azienda torinese (e presto americana) è una delle pochissime in Italia ad avere una dimensione multinazionale, sia per diffusione che per fatturati. A livello industriale, c’è solo Eni; a quello finanziario, Unicredit Banca e le assicurazioni Generali.

Il resto è fatto da piccole e medie imprese che sono l’ossatura della nostra economia, e che soprattutto la stanno trainando grazie ad un’arma decisiva: le esportazioni. E queste sono il miglior frutto di una combinazione fatta di innovazione, capacità produttiva, attenzione ai mercati. Sappiamo cosa produrre, come farlo, dove venderlo. E su questa filiera possiamo dare lezione al mondo intero.

L’Italia non è una grande potenza mondiale; lo è chi ha bombe atomiche, basi navali sparse per il mondo, vaste “influenze” territoriali. L’Italia è sicuramente una potenza economica mondiale, anche se spesso ce lo dimentichiamo. È soprattutto uno dei cinque Paesi al mondo che ha il migliore saldo attivo tra import ed export.

Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud ci fanno compagnia: noi, con loro, abbiamo un saldo attivo annuale superiore ai 100 miliardi di dollari. Vendiamo tanto, vendiamo ovunque, soprattutto produciamo e vendiamo di tutto. Ma un tappo di bottiglia non è glamour, non fa notizia, non ne parlano tutti quanto un tablet coreano.

Sì, appena fiutiamo un affare, ci buttiamo a pesce. Ci sono 235 prodotti made in Italy che sono leader mondiali nei rispettivi mercati; 946 che stanno tra i primi tre posti. Sono numeri pazzeschi. Quasi niente che faccia scaturire decine di miliardi di euro di ricavi; quasi tutto che naviga entro il miliardo e, soprattutto, entro i cento milioni di euro annui. Tante gocce – e qualcosa di più – che fanno un mare di soldi, fondamentali per controbilanciare il continuo impoverimento del mercato domestico.

Perché il problema dell’Italia di questi anni è tutto qui. Il mondo gira, e noi con esso; l’Italia arretra, e noi dentro essa. Un’Italia che non funziona ha fatto impoverire gli italiani, che hanno meno soldi da spendere e quindi mandano in crisi quei produttori di beni e servizi che si limitano al mercato nazionali: tutti, in tutti i settori. Solo chi si rivolge (anche) all’estero, ha saputo tenere botta se non addirittura crescere.

Ma siccome la vera trama della nostra economia è fatta di micro-imprese (giocoforza dall’orizzonte geografico limitato), ecco che il loro peso – due terzi del totale – sbilancia pure i successi delle esportazioni e trascina in giù la nostra economia.

Quindi una prima, amara verità: le esportazioni comunque non ci possono salvare. Perché hanno in sé caratteristiche comunque non utili per il sistema-Paese. Le reti di vendita all’estero creano lavoro lì, non qui; spesso si conquistano i mercati stranieri producendo localmente (vedi gli stabilimenti Pirelli in Russia e Brasile, o le stesse fabbriche Fiat sparse per il mondo); molte imposte vengono pagate in altri Paesi e non qui; per certi lavori (vedi le grandi opere pubbliche) si utilizzano maestranze locali, e via andare.

Una cosa certamente si può e si deve fare, e lo stanno facendo a pieno ritmo gli Stati Uniti per rilanciare alla grande la loro economia e quindi l’occupazione: riportare in Italia le tantissime fabbriche italiane ora sparse per il mondo. Stiamo parlando di decine di migliaia di stabilimenti – centinaia di migliaia di posti di lavoro – dislocati in Romania, Slovacchia, Albania, Tunisia, Cina ma anche nelle vicine Austria, Slovenia, Spagna. Gli Usa ci riescono perché hanno abbattuto il costo dell’energia; altri (Spagna) hanno rimodulato quello del lavoro; altri ancora (Irlanda, ora pure la Francia) il carico fiscale.

E noi? Si dormicchia. Ma soprattutto si sente in giro un incredibile silenzio quanto a proposte politiche sulle grandi azioni che occorrerebbe fare per svegliare il sistema-Italia, al netto dei piagnistei per prebende pubbliche. Meglio svicolare su temi decisivi per l’occupazione, quali le unioni civili e la legalizzazione della marijuana…