E la riforma elettorale?

Il 27 marzo sarebbe dovuta approdare all’aula della Camera, ma tutto è stato rinviato a data da destinarsi perché la commissione affari costituzionali è ben lungi dall’aver messo a punto un testo

Dov’è finita la riforma elettorale? Per mesi il tema è stato in primo piano nel dibattito politico. Poi si è inabissato nei lavori della competente commissione parlamentare, salvo riaffiorare di tanto in tanto nelle cronache come un fiume carsico. Il 27 marzo la riforma sarebbe dovuta approdare finalmente all’aula della Camera, ma tutto è stato rinviato a data da destinarsi perché la commissione affari costituzionali è ben lungi dall’aver messo a punto un testo. La causa del rinvio non è tanto nel numero di proposte presentate (29), quanto nell’assoluta mancanza di un accordo politico, con i tre poli (Pd, 5Stelle e area di centro-destra) che fanno i loro calcoli in vista delle elezioni del 2018 e i piccoli partiti preoccupati di assicurarsi una rappresentanza parlamentare.
Si dice che se ne riparlerà dopo l’elezione del segretario del Pd. Ma la sensazione è che quel passaggio possa non bastare a sbloccare la situazione. L’esperienza insegna che fare una riforma elettorale quando le elezioni sono già all’orizzonte è un’impresa veramente ardua. Eppure è necessario almeno risintonizzare i sistemi in vigore nei due rami del Parlamento, dato che il voto popolare – bocciando la riforma costituzionale – ha conservato due Camere con identico potere di fiducia nei confronti del governo.
Allo stato, e già questo è indice di una patologia, sia la legge elettorale della Camera che quella del Senato sono quel che resta dopo due parziali bocciature della Corte costituzionale. Per la Camera, se si eccettua il caso (al momento solo teorico) di una singola lista capace di raggiungere il 40% dei voti, nel qual caso scatterebbe un premio in seggi che le garantirebbe la maggioranza dei deputati, il riparto avviene con il metodo proporzionale. Resterebbero fuori da Montecitorio le liste sotto il 3%. Per il Senato non è previsto alcun premio di maggioranza, il riparto dei seggi avviene con il metodo proporzionale (ma regione per regione), e la soglia di sbarramento è dell’8%, che però scende al 3% per le liste alleate in coalizioni che abbiano conseguito almeno il 20% dei voti. Insomma, in un ramo del Parlamento c’è un premio di maggioranza (la Camera) e nell’altro no. In uno (il Senato) sono incentivate le coalizioni e nell’altro sono escluse. Anche lasciando sullo sfondo altre differenze non marginali, per esempio in materia di preferenze, lo scarto è evidente. E non è inutile ricordare che, a norma di Costituzione, il corpo elettorale che vota per i deputati (i cittadini maggiorenni) è comunque diverso da quello che elegge i senatori (occorre avere 25 anni).
Preso atto che con il sistema proporzionale avremo comunque governi di coalizione, frutto di accordi dopo il voto, il rischio nella situazione attuale è che dalle urne possa uscire un quadro tale da non consentire la formazione di alcuna maggioranza di governo. E se non si intervenisse sui sistemi elettorali in vigore, sarebbe molto più di un rischio.