Rieti: una caricatura di città?

Diciamocelo con franchezza e sia pure nella formula che la concisione di questa analisi impone: Rieti è sempre più una caricatura di città.

La nostra antica e forte identità ha ora il suo segno distintivo in un ricordo sbiadito, siamo un residuo del passato, abbiamo smesso di pensarci. Le bellezze e le originalità che abbiamo da mostrare a chi ci visita, sono solo quelle che appartengono ad un passato ormai lontano, cere da museo. La nostra città sembra aver perso, insieme alla capacità di definirsi, molte delle sue funzioni creatrici per farsi figlia innaturale del sogno svizzero di alcune periferie del nord, quasi prive di luoghi di scambio umano e socializzazione. Siamo vittime di un inurbamento informe, generato da un’edilizia incontrollata e inespressiva su cui domina l’estetica del brutto.

Questa crescita senza identità è dipesa in gran parte da strumenti urbanistici sbagliati o inesistenti, da interessi economici e di potere, ma soprattutto giustificata dalla previsione, rivelatasi errata, che il futuro sarebbe dovuto essere quello della città diffusa, senza più anima, senza più centro, in ossequio ad una tendenza interessata che nega il ruolo fondamentale della strada e della piazza.

Al fondo di tale ripiegamento non c’è la mancanza di tecnici, che anzi possediamo in esubero. La città ideale, sia pure tendenzialmente ideale, non è quella fondata sulla perfezione dei suoi rapporti ma quella che esprime, appunto, degli ideali, quella plasmata da una cultura che deve essere “politica” nel senso più pieno e originario del termine. Quindi, in fondo, è l’assenza di politica che determina lo sviluppo informe del territorio e l’impoverimento di stimoli e funzioni vitali. L’appello che va fatto è dunque di tornare ad affrontare il cuore del problema, il significato che la polis deve darsi per esistere.

Capita sempre più spesso di assistere alla gara tra maggioranze e opposizioni, all’interno delle città italiane, per attribuirsi la realizzazione di un’opera senza che nessuno si interroghi sul complesso dei rapporti che questa determina. L’amministrazione ha vinto sulla capacità di governo dei processi.

Scrisse Sant’Elia nel ’14: «Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città». Certo non si riferiva alla deperibilità dei materiali, ma al senso che il contesto urbano assume in conformità con chi lo occupa; una città esiste, ha un’anima, una fisionomia, una forza da esprimere se risponde a una analoga forza dei suoi abitanti. Sono questi a doverla plasmare.

Dare senso alla città significa ricostruirla, rifondarla continuamente.

Quello che ci occorre, per un rinascimento possibile, è un nuovo senso della prospettiva, una rinnovata visione del futuro, una città che dal proprio seno sappia trarre gli anticorpi a questo processo polverizzante, producendo controtendenze, percorsi di segno contrario che, per ora, sembrano del tutto utopistici. L’essere reatini deve tornare a rappresentare un segno di originalità. Ci somigliamo perché segnati da una incancellabile comunanza genetica, antropologica e culturale, trasmessa da una città natia che prima di tutto è madre, da amare ed accettare per quello che è, senza riserve.

La propria madre, che sia bella o meno bella, con gli occhi storti o con la peluria sulle gote, la si ama incondizionatamente.

La città-madre è quella e basta. Durante la tua vita, e ancor più negli anni dell’adolescenza, ti entra nella mente e nell’anima. I ricordi di quella età, con lo sfondo della strada che porta verso casa, saranno indelebili, come lo saranno le immagini delle facciate, dei cortili, dei campetti sterrati, il portone della scuola, la fontanella, una panchina scassata, i volti degli amici. Vivrai con quei luoghi e quei nomi in testa, per sempre.

La città non è mai il contenitore quanto piuttosto il contenuto di ogni ragionamento. È un sistema di forme ordinate da qualcuno per qualcosa, è un insieme di obiettivi. Tornare a parlarne contiene già in sé un’indicazione di futuro.