Rieti, siamo a cavallo?

Comune di Rieti

Cosa si nasconde dietro all’inesauribile soddisfazione che qualcuno sente per ogni visita in città, per ogni accenno di visibilità, per ogni parvenza di internazionalità che Rieti riesce a raccogliere?

Sarà stato per il passaggio della Pasqua di resurrezione. Sarà stato un pesce aprile. Magari è solo la primavera. Fatto sta che a qualcuno sembra che la città stia tornando viva.

Non perché stia producendo qualcosa da sé, perché si stia rimettendo in sesto. Ma perché continua a cercare un rilancio e una giustificazione guardando fuori. Forse comincia ad assomigliare a quelle donne che essendo disperate si mettono a sedurre chi capita.

Così ecco giungere i giovani ballerini dall’Est Europa per l’anteprima del Rieti Danza Festival. E insieme sono arrivati i giovani svedesi per l’atletica leggera e i giovani americani del coro Youth Performing Arts School per il Vespasiano. Giovani di tutta Europa sono arrivati a Rieti per lo Scopigno Cup, e giovani italiani per il raduno della nazionale Junior di Atletica Leggera.

A vederli è un piacere e qualcuno giura che queste presenze hanno garantito una Pasqua di Cultura e Sport, aiutando anche un po’ l’economia. Che dire: indubbiamente c’è qualità ed è un bene che queste iniziative ci siano e riescano. Tuttavia ci pare ravvivino poco o niente.

Lo stato d’animo della città, infatti, sembra rassomigliare alla statua di San Francesco posta sotto il Municipio. La silhouette del cavaliere è gravata dal peso della sconfitta. S’era convinto, Francesco, di avere una opportunità eroica, di poter produrre un’epica affermazione di sé, di poter trovare spazio tra l’aristocrazia compiendo imprese militari. E invece scoprì di essersi avventurato in un terreno non suo.

Quella “a cavallo” è un’individualità dal grande potenziale, ma anche problematica, ancora alla ricerca di una prospettiva. Francesco trovò la sua strada poco dopo, ma fu una svolta radicale, inedita e inaspettata. Rimise in discussione tutto, riprese a riflettere da capo sui problemi. Ascoltò, è vero, una sua vocazione, ma ci ragionò sopra: fece uno sforzo da intellettuale.

Quale fu il risultato? Rinunciò ad un patrimonio consolidato, ad una posizione invidiabile, ad un business avviato nel ramo tessuti. Lo fece resistendo a minacce, lusinghe e contrarietà. Ed ebbe ragione, gli si dovette dar retta. Alla fine gli si chiese di tradurre la propria esperienza “folle” in Regola.

Sarà il caso, amici reatini, di fare altrettanto? Non sarà che come il giovane Francesco stiamo inseguendo le battaglie sbagliate?

Guardiamo alla nostra “industria culturale”: pare abbia il torcicollo. Ha la testa rivolta all’indietro, alla ricerca di passati gloriosi dai tramonti mai finiti. A meno che non sia in cerca di pretesti da poco per celebrare le solite eccellenze. Tra il teatro e la piazzetta circolano più o meno sempre gli stessi personaggi. Un club riservato, una élite, che in definitiva non comunica nulla alla città.

E infatti questa non cresce: la sua immagine resta quella di sempre e la vita culturale dei cittadini rimane al palo. Tanti sforzi, magari sinceri, forse “titanici”, restano vani. Sarà per sfuggire a questa noia che ci si mette a guardar fuori, che si fa di tutto per darsi un tono internazionale?

Intendiamoci: a noi un certo ecumenismo va benissimo! La pluralità ci piace, sappiamo che nel mondo circolano tante identità diverse, e le guardiamo con partecipazione.

Parlare di “culture” suona pure moderno, ma non accontentiamoci delle tessere sparse, senza mai mettere insieme il mosaico. Non facciamone una scusa per nascondere l’incapacità di tenere insieme una realtà complessa, una città in frammenti.

Si direbbe che abbiamo fatto nostra la dimensione del social network. Sembriamo rassegnati a vivere in un contesto di identità deboli, in cui la norma è veicolare idee aliene, esterne. Un pullulare di link che non sempre rimandano a contesti affidabili.

È il segnale che abbiamo perso la capacità di relazionarci, di esporre la nostra idea sul mondo, di manifestare una nostra opinione, per quanto sciocca o provinciale?

Non a caso l’editoria locale è zeppa di autori di libri e articoli che hanno un continuo bisogno di fare citazioni, anche improbabili, di aggrappare ogni discorso a qualcosa di diverso da sé.

Che dire: in città arrivano tante cose di qualità, persino le avanguardie, ma non attecchisce nulla. Sarà perché gli intellettuali, i leader politici e sindacali, e i giornalisti, non hanno alcuna autorevolezza di pensiero, né il coraggio di proporre una propria elaborazione?

Forse non sono capaci di una autentica funzione dirigente. Di conseguenza si rifugiano nell’inerzia, in strategie consolidate ma fallimentari, in un eterno guardare altrove in cerca della prossima estemporanea occasione di visibilità.

Direte che a parlare è il nostro pessimismo, il nostro radicato scetticismo reatino. Può darsi: difficilmente – è vero – ci lasciamo incantare dalle lucette, dai manifesti, dai grandi nomi calati dall’alto.

Forse perché sentiamo che un vero miglioramento richiede qualcosa di più profondo e difficile dell’importazione di qualche spettacolo esotico.