Rieti, rifugiati. La storia di Hamsa

Rifugiati. Questo termine è sempre più presente nel nostro vocabolario corrente. Si parla di rifugiati in televisione, sui giornali, si discute la loro condizione anche tra amici. Ma ci sono pochi che sanno davvero quello di cui parlano. Le parole di disprezzo e disgusto sono purtroppo più comune delle parole di sostegno e di solidarietà. Siamo consapevoli delle storie, delle paure, delle avventure che si nascondono dietro le espressioni di queste persone? Quanti sorrisi annegarono in mare, quanti sono stati persi per cercare una vita che ritenevano essere più degna?

Permetteteci di raccontarvi una storia. La storia di Hamsa.

Hamsa è nato nel 1996 a Kismaio, Somalia. È una città portuale nella regione del Basso Giuba in Somalia. È la quinta città del Paese con 256.000 abitanti. È situata a 520 chilometri a sud-ovest di Magadiscio, vicino alla foce del fiume Giuba che scorre fino all’oceano Indiano. Kismaio e la terza città per importanza, economica e sociale della Somalia.

In Somalia c’è una guerra civile, dal 1991, tra il governo e Al Shabaab, un gruppo islamico che ha collegamenti con Al Qaeda e che, negli ultimi anni, ha forzato migliaia di persone, compresi i bambini, a lavorare e uccidere per loro. Questo è uno dei motivi per cui così tante persone stanno lasciando il paese.

Anche se ha descritto la sua città come pacifica, lo spettro del gruppo islamico Al Shabaab è sempre stato una costante nella loro regione, soprattutto negli ultimi anni in cui la loro forza è più evidente nel Paese. Per questo Hamsa è andato in cerca di una vita migliore, la libertà e la sicurezza del “sogno europeo”.

Ha 6 fratelli ed è stato il primo (e unico) della famiglia a lasciare il Paese. Uno dei fratelli è laureato presso l’Università di Medicina, l’altro di Ingegneria e una delle sorelle sta studiando al liceo. Hamsa, nelle stesse circostanze, ha studiato solo per quattro anni presso la scuola. Ha la speranza di proseguire gli studi.

Nel 2012, Hamsa, che aveva 16 anni, ha iniziato la sua odissea in Italia dove sarebbe arrivato sei mesi dopo. Prima, però, ha attraversato l’Etiopia, il Sudan, attraverso i sentieri del deserto del Saahara in Libia, dove ha fatto una sosta per quattro mesi per raggiungere finalmente Lampedusa, con una piccola barca con oltre un centinaio di persone. Per arrivare finalmente in Italia è stato costretto a pagare ai trafficanti di esseri umani 5000 dollari.

I dettagli di questo viaggio li teneva per sé, dopo tutto non è facile raccontare alcuni momenti dolorosi del passato, che nella memoria di Hamsa sono certamente recenti e vivi.

Immaginate, allora, come si sente un ragazzo di 16 anni, da solo, dopo aver attraversato mezzo mondo per arrivare in Europa. «Stanco e curioso» ci ha detto.

Così, i suoi primi giorni, all’arrivo a Lampedusa nel giugno 2013, erano un misto di soddisfazione, di estrema stanchezza e curiosità per una cultura e lingua completamente diversa e distante dal proprio Paese. Pochi giorni dopo fu mandato in un progetto ad Atina, rivolto ai minori, dove rimase circa nove mesi. Nel corso di quella stagione, ha imparato la lingua italiana mentre aiutava gli operatori in caso di necessità di pulizia, facendo i lavori manuali.

Quando ha raggiunto la maggiorità, è stato trasferito in un progetto SPRAR a Rieti, raggiungendo così il centro Caritas Diocesana di Rieti. «Non mi piacciono le grandi città e mi sento bene qui» ci ha confessato, però i primi mesi sono stati complicati. Anche se ben accolto – sia dagli operatori e dai colleghi – la partenza è stata difficile dato che non c’erano traduttori Somali nel progetto e il suo italiano era comunque di base.

«Studiare la lingua italiana non è stato molto difficile. A mio parere la maggiore difficoltà ad imparare una lingua è lo studio delle differenze tra gli alfabeti. Però l’alfabeto italiano e l’alfabeto della mia lingua madre non sono molto diversi. Non ci sono stati problemi».

Naturalmente, la Somalia e l’Italia sono paesi molto diversi. Ad esempio, i somali preferiscono il venerdì, come giorno di riposo, gli italiani il sabato e la domenica. Quel giorno in cui tutte le scuole e gli uffici sono chiusi, lo dedicano interamente alla cura della casa. Non da ultimo, naturalmente, si dedicano alle specialità della cucina casalinga. «Posso cucinare – spiega Hamsa – spesso ho aiutato mia madre in cucina. Abbiamo cucinato riso. Anche pasta, che è molto diversa dai piatti italiani».

Qualche tempo dopo, gli fu offerto un corso di formazione professionale, che si è concluso con successo ed è stato scelto per uno stage in una società dedicata alla cura e alla pulizia delle strade della città. Nel mese di febbraio il suo tirocinio termina. Tuttavia, per la dedizione, l’impegno e l’amicizia che lo uniscono al suo datore di lavore, si apre la porta a un possibile contratto di lavoro. In caso contrario, cercherà un altro lavoro in Italia. Prima il suo desiderio era quello di lasciare il nostro Paese.

Per occupare il suo tempo libero – che ora è poco – Hamsa è solito camminare, giocare a calcio, parlare e uscire con gli amici e ha una grande conoscenza e interesse per le squadre di calcio europee. È sostenitore del Liverpool. «La nostra squadra di calcio ha vinto la Coppa nel mese di giugno 2014 in un torneo tra italiani e stranieri della citta di Rieti» durante la “Giornata Mondiale del Rifugiato” con il progetto SPRAR.

Che cosa è il Progetto SPRAR?

Il progetto SPRAR, o Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, è composto da una rete di organizzazioni locali – con il finanziamento del Ministero dell’Interno e il Fondo Nazionale per le politiche tematiche i Servizi dell’Asilo – e sostiene e fornisce accoglienza a richiedenti d’asilo e rifugiati. Attualmente, ci sono circa 430 progetti sparsi in tutta Italia che offrono i seguenti servizi: assistenza integrata per i rifugiati, insegnamento dell’italiano, supporto alla formazione professionale e ricerca di lavoro e preparazione per la Commissione che deciderà se assegnare o no la protezione individuale internazionale. Se la decisione della Commissione è favorevole, il rifugiato ha il diritto di rimanere nel progetto 6 mesi.

È triste vedere la crescente ondata di indifferenza e la ribellione del popolo europeo su questa delicata situazione, che, come sappiamo, separa le famiglie causando sofferenza e migliaia di morti negli ultimi anni. Non dovrebbe essere difficile capire che non parliamo di numeri, ma di persone che per lo più sono come noi: ridono, piangono, hanno sogni, desideri, bisogni. Solo circostanze tragiche li hanno costretti a lasciare il proprio paese per cercare una vita dignitosa in un altro. E chi siamo noi per giudicare che l’essere umano, sapendo che, purtroppo anche molti europei emigrano in un altro paese alla ricerca del diritto a una vita dignitosa?

Dobbiamo respingere tutti gli stereotipi e le gocce di ostilità percepire il mondo in tutta la sua diversità. Toccare il cuore, che pulsa di amore e di gioia e di aprire le nostre anime a nuove conoscenze.

di Susana Costa e Maria Boiko