Rieti e le prediche inutili

Sabato scorso la città ha visto la marcia dei lavoratori delle industrie in crisi attraversare il centro storico. Una iniziativa organizzata insieme alla Diocesi per tenere alta la guardia sui problemi, proposta nello stesso giorno dalla fiaccolata di solidarietà dello scorso anno.

Ma la manifestazione di allora, sostenuta da un momento di particolare emotività, fu molto partecipata. Lo sforzo di sabato, invece, è sembrato fin troppo debole e isolato. Ma non per questo è stato inutile. Se non altro ha raccontato una volta di più la nostra situazione. Ha mostrato di nuovo la nostra debolezza. Non è certo un bel vedere, ma almeno sappiamo il poco da cui dobbiamo ripartire.

Il numero degli assenti farebbe avanzare il sospetto di un’esagerata strategia morettiana. Il classico «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?».

Per la verità troviamo l’ipotesi addirittura confortante. Almeno ci sarebbe una logica, una strategia. Un modo risolutivo per sottolineare che tutto sommato, a lor signori, non gliene importa nulla.

Ma messa così, la questione si ridurrebbe ad un ben misero atto d’accusa. Una consolatoria presa di coscienza dell’indifferenza e della mancanza di passione per i drammi e le proposte altrui.

È un po’ poco. Piuttosto sarebbe il caso di domandarsi perché la città sembri così sorda e addormentata. E soprattutto perché risulti sempre così frammentata e dispersa nei suoi più ristretti interessi.

Qual è il collante che manca? Perché Rieti sembra del tutto priva di un’anima trasversale, di una qualunque aspirazione a riconoscersi in valori, interessi e posizioni comuni? Perché ogni faccenda viene sempre affrontata a partire da prese di posizione individuali, o, quando va bene, dal punto di vista di un corporativismo piccolo e asfittico?

Forse sono domande troppo impegnative. Forse per rispondere occorrerebbe indagare a fondo sul cuore stesso della città, sui suoi intimi rapporti di forza e sui suoi compromessi. Ma può anche darsi che la realtà sia più banale e richieda meno dietrologia di quanta ne gradiscono gli amanti dei complotti e delle occulte strategie.

Magari siamo tutti individualisti, e quindi deboli e isolati, semplicemente perché non sappiamo più come e dove aggregarci. Perché quelli che una volta si chiamavano i “corpi intermedi” arrancano o sono andati perduti.

Il sindacato ne è un esempio. Fa sforzi lodevoli, talvolta eroici, ma è evidentemente in crisi profonda. A malapena riesce a portare in piazza quattro gatti. In parte accade perché si è prosciugato di tensione ideale, perché si è ridotto ad una burocrazia tra le burocrazie. Ma bisogna pure ammettere che un certo ripiegamento è dettato dall’autodifesa. È l’effetto dell’attacco al quale è da tempo sottoposto. Una critica talmente feroce e costante che meriterebbe senz’altro un ragionamento a sé.

Un tempo c’erano pure i partiti a raccogliere, organizzare e fare la sintesi delle idee e delle necessità. Oggi non vale neppure la pena parlarne. Travolti dalla propria stessa crisi, li possiamo tranquillamente considerare estinti. Alle solide organizzazioni monolitiche di ieri si è sostituito un movimentismo liquido, leggero. Un dissolvimento ideologico che ha lasciato sul campo agguerriti comitati d’affari, del tutto autoreferenziali.

Persino il partito più grosso e strutturato non fa differenza. Il giorno in cui i lavoratori sono scesi in piazza era tutto intento a contare i voti dei congressi di circolo. Giusto per ribadire la scaletta delle priorità.

E non sono solo le organizzazioni popolari, “di massa” a segnare il passo. Il discorso si potrebbe estendere alle associazioni di categoria e a quelle datoriali. Dovrebbero servire ad una ragionevole tutela di interessi di parte, ma al giorno d’oggi sembrano soprattutto uno strumento al servizio delle posizioni di rendita dei loro membri più forti.

Il panorama è sconsolante. E «l’inusuale protagonismo della Diocesi» è un chiaro segno dei tempi. Fa da supplente come può, e non a caso rilancia ad ogni occasione il tema del dialogo e dell’unità. La Chiesa locale è spinta dall’attenzione che ha sempre avuto per le persone più deboli e in difficoltà, ma sa benissimo di non potercela fare da sola.

Come “corpo intermedio”, del resto, anche le parrocchie hanno i loro problemi. Ancora reggono come “refugium peccatorum”, ma per il resto c’è molta strada da fare. Va bene il lavoro nelle sagrestie, ma sarebbe bello vedere più coraggio e cogliere una carità che si esercita anche prendendo posizione, scendendo in piazza, offrendo il proprio contributo all’interesse generale attraverso una solida partecipazione al dibattito pubblico.

Ed un discorso simile dovrebbe essere inteso e trovare maggiore eco anche in altre stanze. Nelle istituzioni, nei sindacati, nei partiti, negli ordini e nelle associazioni, infatti, sono ancora in tanti ad avere a cuore il bene comune. Abbastanza da non far mancare la speranza.

Da parte sua il Comune sta cercando di dare corpo alle consulte cittadine. Col tempo vedremo se saranno uno strumento valido. Ma in fondo l’importanza è relativa: moltiplicare momenti di discussione, di partecipazione e di formazione un po’ ovunque non sarebbe difficile.

Se il tema è da lanciare e rilanciare è solo perché manca la convinzione. Ed infatti, per il momento, ce ne restiamo ognuno per conto proprio, a coltivare il nostro mugugno e il nostro personalissimo risentimento. Ma quanto sarebbe meglio cercarsi e stringere qualche alleanza?