Rieti, città sotto assedio

Rieti è un quieto borgo di provincia dall’illustre passato, sospeso fra una presunta centralità geografica ed una condizione storica di terra di confine, da secoli ormai interiorizzata nei costumi dei suoi abitanti, riservati, a volte schivi, poco inclini alla confidenza.

Ancora, in qualche misura, è impressa la memoria atavica delle distruzioni, dei lutti, delle pestilenze e delle carestie giunte da oltre confine.

L’alto Medioevo, travagliato dalle invasioni barbariche, registra l’invasione longobarda, a cui segue un lungo periodo di sottomissione al Ducato di Spoleto, fino all’avvento di Carlo Magno.

Fra il IX e il X secolo, la Sabina fu devastata a più riprese dai Saraceni, che distrussero Trebula Mutuesca, rasero al suolo l’abbazia di Farfa, fermando la loro opera di devastazione sulle sponde meridionali del Velino.

Ma il peggio doveva ancora venire: alla metà del XII secolo, Rieti subì l’assedio ed il saccheggio da parte degli armati di Ruggero il Normanno.

L’opera di ricostruzione, intrapresa grazie al contributo di Roma, legò la città al potere temporale della Chiesa, che garantì per tutto il XIII secolo una condizione di stabilità e benessere. Al tempo della cattività avignonese, Rieti risentì dei torbidi fra gli esponenti delle fazioni. Nel corso della prima età moderna, durante il primo quarto del XV secolo, subì per breve tempo la signoria di Gian Galeazzo Visconti, fu sottomessa al re di Napoli Ladislao, fu occupata da Braccio Fortebraccio. Durante il secolo successivo, come racconta il canonico Pompeo Angelotti, fu la volta di una distruzione preventiva e precauzionale, decisa dal papa che temeva di dover intraprendere una guerra contro il Regno napoletano: «passato il ponte del fosso, ch’il borgo con un ramo del Velino circonda, tutti questi contorni nel 1557, essendo pontefice Paolo IV furono buttati a terra, per render più forte Rieti, che in quel tempo temeva de’ Regnicoli, e del Duca d’Alba».

L’evo contemporaneo s’inaugura nel sangue con il fenomeno dell’insorgenza, che divampa dopo la rivoluzione francese, culminando il 23 agosto 1799 nel duro attacco sferrato dalle truppe del generale Salomone. Trascorsa l’età napoleonica, Rieti fu scenario della battaglia che inaugurò il Risorgimento. Nel 1831, invano assediata dal generale Sercognani, meritò dal papa il riconoscimento di civitas semper fidelis.

La presenza di Garibaldi al tempo della Repubblica Romana del 1849 lasciò sostanzialmente indenne la città, ma non i beni della Chiesa, che sarebbero stati ancor più depauperati dopo l’unità d’Italia.

L’ultimo insulto, alla città ed ai suoi inermi abitanti, quando ormai almeno per l’Italia centrale la seconda guerra mondiale era giunta al termine, l’esercitò la seconda guerra mondiale. Erano le nove e trenta del mattino del 6 giugno 1944: due giorni avanti, l’esercito angloamericano era entrato a Roma fra due ali festanti di folla.

I tedeschi in ritirata avevano ormai lasciato la città, dopo aver minato i piloni di alcuni ponti sospesi sul Velino e sul Turano, ed aver disseminato la dinamite fra i platani del maestoso viale che accompagnava per lungo tratto chiunque si dirigesse verso il nord.

I ricognitori della RAF individuarono facilmente, nel limpido cielo di una giornata di fine primavera, il quieto rione del Borgo, e vi sganciarono il loro carico di bombe. Le vittime civili furono ventisette, per lo più donne e bambini, tredici i tedeschi, gli ultimi attardatisi nelle retrovie.