A Rieti c’è tanta gente che fotografa. Il problema è che manca lo scambio

Conclusa l’esposizione delle tele di Francesco Sacco, all’Auditorium dei Poveri è il momento della fotografia, con i lavori di Marcello Pennese.

La mostra rimarrà allestita fino al 21 dicembre, lasciando da quel punto in poi il posto alla terza esposizione di questo percorso, dedicato alle immagini di Fabrizio Naspi.

«Frontiera» non ha mancato l’occasione di approfondire i temi della mostra e di indagare più in generale sul clima clima culturale della città con il protagonista.

Marcello, il tema dell’esposizione è “Ritratti”, ma le tue sembrano soprattutto foto della natura…

Sono foto che interpretano il concetto di ritratto. Come visto già con Francesco Sacco, il ritratto nel nostro caso è una interpretazione, non la rappresentazione reale di quello che la parola ci pone immediatamente davanti. Andiamo a scoprire quello che dentro al ritratto può esserci o che la nostra sensibilità riesce a cogliere rispetto a quello del semplice osservatore, dello sguardo veloce della quotidianità. Ritratti è un discorso più interiore. Mi piace pensare agli Indiani d’America: parlando di ritratti vengono normalmente raffigurate come figure imponenti. In realtà dicevano che la macchina fotografica gli rubava l’anima, e dunque erano ostili a farsi fotografare. In qualche modo la mia fotografia va oltre l’estetica del ritratto, va dentro l’oggetto che ritraggo, per cercare di “prenderne” l’anima, senza rubarla, ma limitandosi ad osservarla. Spesso accade che dentro a quell’esteriorità si celino figure che ci fanno pensare fortemente al ritratto come ce lo presenta la parola: il viso, o il volto anche se trasfigurato nelle forme e nei colori.

Quindi è un’indagine fatta sulle forme, ed essendo fotografia, sulla luce…

Sulla luce principalmente. Nella fotografia è la base di tutto. La luce porta il colore, senza luce non avremmo il colore. Si tratta di aspettare per andare a cogliere il momento giusto per trovare una luce che illumini il soggetto in un certo modo e dia quelle caratteristiche per cui noi siamo portati a produrre un certo tipo di scatto.

È un discorso di ricerca. A Rieti c’è una solida tradizione di fotografi: penso ad esempio al Circolo fotografico. A che punto è questa “scuola”, a che punto è la fotografia a Rieti?

La domanda mi mette un po’ in difficoltà. Io ho fatto parte per tanti anni del circolo fotografico, dall’82, quando ho cominciato a fotografare, sono entrato nel Circolo. Mi vengono in mente due figure importantissime: Fausto Porfiri – che era il fondatore, di una sensibilità unica, oltre che umana anche fotografica – e Romano Fabri, che per me è stato un fondamento, il maestro unico di tutto il mio sviluppo fotografico. A Rieti c’è tanta gente che fotografa. Il problema – e non riguarda solo la fotografia – è che non abbiamo scambio. Siamo portati a rimanere nel nostro guscio e ritenere di essere che il nostro lavoro non dico sia migliore, ma si distingue da quello degli altri, invece di aprirci – come in questa occasione – per confrontarci. Il problema di Rieti è una potenzialità non espressa o in qualche modo bloccata, ferma, che sta lì inutilizzata mentre potrebbe dare tanto di più.

Dipende anche dalla mancanza di spazi adatti ad intessere il dialogo?

Il discorso degli spazi è un discorso importantissimo. Questo spazio dell’Auditorium dei Poveri è una cosa che scopro da poco. Ma è uno spazio molto importante. La città potrebbe offrire molti altri spazi, ma non lo fa. Non so per quale motivo, se è un problema “politico”, o di proprietà degli spazi. Fatto sta che non vengono dati, anche perché hanno dei costi. E gestire i costi è cosa difficile. Non sempre si trova la giusta sensibilità rispetto alla proposta e quindi l’ente o il privato è disposta a sostenere una iniziativa. I posti che ne sarebbero, ma andrebbero rivalutati, occorrerebbe dar loro una connotazione ben precisa e separata da altre manifestazioni, non perché non hanno dignità, ma perché oggettivamente diverse dalla mostra d’arte.