Riciclo vestiti usati: “affare” di scala europea. Ma l’Africa ne fa le spese

Il Vecchio continente produce ogni anno quasi 6 milioni di tonnellate di indumenti dismessi, alcuni in buone condizioni, altri ridotti a stracci. Una ricerca condotta nei Paesi nordici ricostruisce i passaggi, dalla raccolta allo smistamento, fino alla rivendita. L'”economia circolare” è complessivamente orientata alla solidarietà (quando coinvolge ong ed enti caritativi) e al rispetto ambientale. Eppure in questo caso non mancano gli aspetti negativi, fra cui le ricadute sul settore tessile dei Paesi poveri

Continua lo sforzo dell’Unione europea nella direzione dell’“economia circolare”, quel sistema per cui i rifiuti rientrano in vario modo nel circolo economico come risorse. La Commissione ambiente del Parlamento europeo ha definito a fine gennaio un nuovo pacchetto legislativo che sarà votato in plenaria probabilmente entro febbraio e che rafforza alcune direttive comunitarie. Tra i nuovi obiettivi europei in materia di rifiuti la percentuale di riciclo dovrà salire al 70% entro il 2030 (dall’attuale 44%); in discarica non ne potrà finire più del 5%; lo spreco alimentare va ridotto del 50% rispetto agli attuali 180 kg pro capite annui (e sono previste norme per facilitare le donazioni di cibo); bisognerà migliorare la differenziazione nella raccolta urbana di rifiuti, includendo anche gli indumenti.

Settore in crescita. La raccolta differenziata di abiti e il loro riciclo è già una filiera cresciuta esponenzialmente dai primi anni 2000 portando con sé un giro d’affari enorme. Si tratta di un totale di 5,8 milioni di tonnellate all’anno di rifiuti tessili in Europa (di cui, ad esempio, 159mila tonnellate in Francia, circa 80mila tonnellate in Italia; oltre 100mila in Gran Bretagna; 100mila nei Paesi nordici), per un mercato di 2,8 miliardi di dollari (stime del quotidiano “Guardian”).

Il destino degli indumenti che gettiamo negli appositi cassonetti è il più diverso:

una volta selezionati, parte è destinata a essere rivenduta nel Paese (ma solo in Gran Bretagna è consistente la tradizione dei negozi di seconda mano gestiti da associazioni non profit per finanziare progetti), una parte è riciclata in una nuova filiera produttiva (per gli isolanti del settore edile, ad esempio), l’inutilizzabile e invendibile finisce in discarica, ma la fetta più consistente è destinata all’esportazione, dove accanto alle organizzazioni umanitarie, ora pullulano imprese di import-export. In questo turbinio di stracci, la serie di ambiguità e di possibili miglioramenti è infinita.

Flusso di esportazioni. Lo mostra ad esempio uno studio molto dettagliato di recente pubblicazione (Exports of Nordic Used Textiles: Fate, benefits and impacts, 168 pagine), su iniziativa del Consiglio dei ministri dei Paesi nordici nel contesto della “Iniziativa sulla crescita verde” (Green growth initiative) che ha monitorato questo flusso di esportazioni per verificare quanto sostenga l’economia circolare o se sia una semplice esportazione di rifiuti verso Paesi che non hanno gli strumenti per gestirli; e ancora se quest’esportazione abbia effetti negativi sull’industria tessile dei Paesi riceventi.

Filiera, tracciabilità. Ogni anno Danimarca, Finlandia Norvegia e Svezia portano 75mila tonnellate di tessuti usati in oltre 100 Stati. Una parte avviene ad opera di enti benefici che finanziano così le loro attività. Tre quarti del materiale, invece, è venduto così come lasciato nei cassonetti a compagnie nell’Europa orientale (Polonia, Lituania, Bulgaria…) per la cernita, lavoro troppo oneroso nei Paesi nordici per essere economicamente fattibile. Di qui, poi, prende il largo per essere rivenduto: “la crema” in Europa (10%); la seconda qualità ancora in Europa (Balcani, Russia, Turchia, ma anche Africa, 46%), una parte al Medio Oriente (11%). Quanto alla fetta di materiale inutilizzabile, quindi rifiuti, parte resta in Europa (8%), parte va in India e Pakistan per un “riciclo meccanico” (28%), “molto poco va in Africa”. Una prima criticità deriva dal fatto che “negli ultimi anni, il mercato ha registrato un eccesso di tessuti di scarto raccolto in Usa, Europa e altrove, generando una riduzione della domanda e quindi dei prezzi”. Se per un verso si è cercato un mercato per ogni singola frazione per ammortizzare le spese di smistamento,

è cresciuto lo sfruttamento economico di chi lavora nel settore.

Di qui una prima raccomandazione: se per i tessuti destinati all’aiuto umanitario è facile seguire la filiera perché gestita dalle organizzazioni che lo promuovono, occorre migliorare la “tracciabilità” di ciò che finisce nel circuito commerciale e creare “codici di condotta” imposti dai raccoglitori nordici sugli acquirenti lungo la filiera commerciale, con regolare monitoraggio sulla loro implementazione.

Impatto sull’Africa. Lo studio evidenzia il beneficio ambientale dei Paesi nordici che altrimenti avrebbero dovuto incenerire questi abiti, dato che “non esiste al momento un mercato interno per riutilizzare o riciclare” così tanti abiti dismessi. Emerge anche l’impatto di questo flusso sull’economia dell’Africa sub-sahariana (Kenya, Ghana, Rwanda, Uganda, Tanzania e Malawi) che “può aver contribuito al declino dell’industria tessile domestica”, già di per sé segnata da obsolescenza e inefficienza”.

Regole e linee guida. Il documento raccomanda agli esportatori e ai politici nordici, oltre al codice di comportamento e al suo monitoraggio, di accorciare la filiera commerciale dando la priorità a commercianti diretti e non all’ingrosso; per la cernita si chiede di dare la priorità ai Paesi Ue, dove il trattamento dei rifiuti è soggetto a regole e processi controllati e si indica la necessità di far nascere progetti di riuso e riciclo all’interno del mercato nordico. Sono inoltre necessarie linee guida relative ai regolamenti nazionali e internazionali sul trasporto di tessuti usati, il varo di strategie per incoraggiare il mercato dell’usato interno, l’assistenza ai Paesi in via di sviluppo per migliorare il sistema di raccolta e trattamento dei rifiuti.