Cultura

Riapre la Scala grandi firme come nel dopoguerra

Come nel 1946, da stasera tornano le grandi orchestre a partire da quella di “casa” diretta dal maestro Chailly: «La pandemia ci ha resi consapevoli del privilegio di un mestiere da vivere uniti»

Lo definisce «un primo passo per un ritorno alla normalità perché è stato un anno sconvolgente, devastato dal virus». Ora si riparte. Con prudenza, però, perché «dobbiamo innanzitutto tutelare la salute di chi lavora in teatro e del pubblico». Riccardo Chailly è pragmatico e, di fronte alla riapertura agli spettatori del Teatro alla Scala (e di tutti i teatri in zona gialla dallo scorso 26 aprile dopo il via libera del governo), ha ben presente che occorre guardare all’andamento della pandemia. «Sono i numeri dei contagi, della campagna vaccinale a indicare la strada e noi dobbiamo attenerci alle indicazioni che ci vengono date» riflette il direttore d’orchestra milanese. Che, però, non nasconde la sua gioia. «Il pubblico mi è mancato. È mancato a tutti. Ritrovarlo è ritrovare il senso del nostro fare musica» dice Chailly che domani sarà sul podio di orchestra e coro del Piermarini per il concerto che vede gli ascoltatori tornare in sala dopo sei mesi. «Troveranno ancora la grande pedana costruita sopra la platea per garantire il distanziamento tra gli orchestrali – anticipa il musicista, direttore musicale del Teatro alla Scala dal 2015 –. Saranno in cinquecento, seduti nei palchi, e potranno ascoltare quel suono unico che abbiamo scoperto in questi mesi suonando non più in buca, ma nella sala vuota».

Da ottobre non avete mai smesso di fare musica, anche senza pubblico tra streaming, radio e tv. Cosa ha significato, maestro Chailly?

Rispetto ad un anno fa, al primo lockdown, durante il quale eravamo tutti a casa senza poter far nulla, questa volta è stato importante non essersi fermati: con i musicisti e tutti i lavoratori scaligeri ci siamo ritrovati musicalmente e umanamente, vivendo il teatro per più ore al giorno, in una ritrovata quotidianità. La possibilità di ricominciare a fare musica ci ha fatto riassaporare la gioia di lavorare e di sognare, cosa di cui anche noi musicisti abbiamo bisogno. E questo ci ha aiutato ad andare avanti, anche senza pubblico.

Ora lo ritrovate in sala. Sinfonie, cori e arie d’opera alla vigilia del settantacinquesimo anniversario del concerto con il quale, l’11 maggio 1946, Arturo Toscanini riapriva la Scala ricostruita dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale.

Era imprescindibile che la riapertura dopo questi sei mesi avvenisse con orchestra e coro scaligeri, i complessi musicali di casa. Toscanini scelse un programma tutto italiano, io, accanto a Giuseppe Verdi ho messo Purcell, Wagner, Strauss e Cajkovskij e ho voluto che il pubblico potesse apprezzare il talento di Lise Davidsen. Un concerto che si apre con il Patria oppressa dal Macbeth verdiano e approda al Va’ pensiero, pagine affidate al nostro coro, unico e insostituibile in questo repertorio.

Nel 1946 la ricostruzione dopo la guerra, oggi i fili da riannodare sono quelli del rapporto con il pubblico.

Non mi era mai capitato di fare musica senza nessuno in sala ad ascoltare. La pandemia mi ha messo di fronte anche a questa sfida. Per fortuna abbiamo avuto due alleati, lo streaming, di cui dovremo fare tesoro per far conoscere il nostro lavoro fuori dai confini italiani, e la Rai che è stata un partner definitivo per l’Italia e per la visibilità internazionale del Teatro alla Scala. Dopo Salome abbiamo ricevuto messaggi da tante parti del mondo. La Messa da Requiem per tutte le vittime del Covid che abbiamo eseguito a settembre in Duomo, grazie alla Rai, è arrivata in tutte le case, parlando alla gente.

La Rai riprenderà il concerto di domani e lo trasmetterà martedì, giorno in cui alla Scala arriveranno i Wiener philharmoniker con Riccardo Muti.

Ed è giusto che la Scala apra le porte alle grandi orchestre e agli interpreti del nostro tempo. Da quando sono direttore musicale del Piermarini, ho voluto fortemente questo: farlo, vuol dire essere all’altezza di ciò che nei secoli è stata la Scala, teatro che da sempre ha ospitato i grandi direttori e le grandi formazioni musicali. I Wiener, poi, sono un’orchestra amica che tornerà con me tra due anni. Così come torneranno altre orchestre perché il pubblico, per affinare la propria capacità di ascolto, deve poter confrontare. Una cosa che avviene regolarmente in tutte le capitali d’Europa: Milano non può essere da meno.

Come vede il futuro per la Scala?

Il ritorno a quella normalità che tutti aspettiamo non dipende da noi, ma dai numeri della pandemia. Certo, quest’anno non possiamo non fare un’opera il 7 dicembre come avvenuto lo scorso anno quando abbiamo dovuto rinunciare a Lucia: Macbeth di Verdi che abbiamo programmato per la sera di Sant’Ambrogio nella nostra testa c’è, tanto che stiamo già da tempo lavorando al progetto.

A marzo è arrivato il rinnovo del suo incarico di direttore musicale sino al 2025, proposto dal sovrintendente Dominique Meyer e approvato dal cda scaligero.

Penso che la direzione musicale abbia bisogno di un consolidamento nel tempo del rapporto, che sviluppi e rafforzi l’entusiasmo iniziale. È stato così nei miei precedenti incarichi al Concertgebouw di Amsterdam o al Gewandhauds di Lipsia dove accanto allo sviluppo del repertorio ho sempre voluto costruire un rapporto di confidenza reciproca e di fiducia con i colleghi musicisti. È successo anche a Milano dove in questi anni l’orchestra ha dimostrato costantemente una forte personalità tra bellezza e unicità del suono collettivo, compattezza d’insieme delle varie sezioni e bravura individuale spesso chiamata a grande virtuosismo. Qualità senza le quali non sarebbe stato possibile realizzare quell’incredibile Salome a febbraio quando sono arrivato a sostituire in corsa l’amico Zubin Mehta.

Quale la lezione che possiamo trarre dalla pandemia?

La consapevolezza che fare musica è un privilegio da assaporare collettivamente e non più da vivere come una quotidianità. Sarà bello, una volta usciti da questo tunnel di morte, riscoprire e capire più a fondo il valore di ciò che abbiamo e di ciò che facciamo.

Ne usciremo davvero migliori?

Voglio sperare che sarà così, ma mi rendo conto che quella che stiamo attraversando è una crisi talmente forte, talmente drammatica, talmente capace di portare all’esasperazione amplificando disagi e tensioni che quello che ci attende sarà un percorso davvero complesso.

da avvenire.it