Renzi e le prime mosse sullo scacchiere del lavoro

Con l’emanazione del D.L. 34 del 20 marzo 2014 il Governo Renzi ha iniziato a muovere le pedine sul delicato scacchiere del diritto del lavoro ed in attesa di una riforma organica annunciata come job act, che necessariamente dovrà dimostrare l’affermazione di un equilibrio innovativo per contribuire ad incrementare i tassi di occupazione, è intervenuto su una importante forma contrattuale flessibile, quella del contratto a tempo determinato.

Non è un caso che negli ultimi anni, soprattutto con la Riforma Fornero del 2012 e poi passando per il “pacchetto lavoro” del Governo Letta dell’estate scorsa, l’attenzione del legislatore si è concentrata su tale tipologia di contratto, considerata a ragione una delle leve per tentare di muovere, dal lato delle regole, un mercato del lavoro drammaticamente stagnante.

Infatti, se è vero come è vero che sino ad oggi il contratto a tempo indeterminato viene considerato dal nostro ordinamento la primaria forma assuntiva, è purtroppo anche vero che in un economia ferma nella quale le politiche aziendali hanno il respiro sempre più corto, l’investimento datoriale in occupazione è sempre più scarso.

Se è vero che le leggi servono a governare i processi, non è possibile in questa fase economica far finta di non considerare come la prima emergenza sia quella di assicurare la percezione di redditi e l’acquisizione di esperienze professionali ad una platea di giovani disoccupati, lavoratori in mobilità e inoccupati strutturali.

È dunque una fase che deve essere governata e non è momento delle mozioni di principio che, pur astrattamente meritorie, non consentono però di muovere il mercato del lavoro.

D’altra parte non può essere dimenticato come, diversamente dalle altre forme di lavoro flessibile, talune delle quali rivelatesi fallimentari, il contratto a tempo determinato sia quella che garantisce i diritti propri della subordinazione lavorativa.

Nella originaria formulazione, l’art. 1 del D.lgs. 368/2001 stabiliva che l’apposizione di un termine di durata ad una contratto di lavoro subordinato fosse consentita solo in presenza di ragioni giustificatrici di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo anche se riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro.

Con la Riforma Fornero, entrata in vigore il 18 luglio 2012, è stata modificato il D.lgs 368/2001 ed è stata prevista la possibilità che, nel primo contratto a termine stipulato tra le parti, possa effettivamente mancare l’indicazione dei motivi senza che ciò comporti alcun genere di sanzione o rischio per il datore di lavoro (contratto a termine acausale).

Con l’art.7 comma 1 D.L. 28.6.2013 n.76 il Governo Letta ha previsto la possibilità di prorogare il contratto a termine acausale dalla originaria durata di dodici mesi, ad un periodo massimo di ulteriori dodici mesi ed inoltre ha introdotto un altro caso di contratto acausale da disciplinarsi a cura della contrattazione collettiva (“in ogni altra ipotesi individuata dai contratti collettivi anche aziendali”) richiedendo così, la partecipazione ampia ed incondizionata delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative alla regolazione della materia.

Il tutto nel limite complessivo del 6% del totale dei lavori occupati nell’ambito della unità produttiva.

Il D.L. aveva anche previsto la possibilità di instaurare un rapporto di lavoro a termine con un lavoratore iscritto nelle liste di mobilità senza dover motivare, sotto un profilo oggettivo, la durata determinata ex ante del rapporto di lavoro.

L’intervento del Governo Renzi, dunque, si spinge in avanti nel solco precedentemente tracciato, semplificando l’intera disciplina; infatti con la modifica degli artt. 1, 1-bis, 2 e 4 del D.lgs. 368/2001 sparisce la causale per tutti in contratti a termine che, pertanto, non dovranno più riportare l’indicazione delle ragioni giustificatrici (tecniche, organizzative, produttive e sostitutive) prima obbligatorie, cosicché tutti i datori di lavoro, quindi, possono liberamente stipulare contratti a termine purché gli stessi non superino complessivamente la durata di 36 mesi, proroghe comprese.

In secondo luogo, l’apposizione del termine deve comunque risultare da atto scritto ed il datore di lavoro non può stipulare contratti a termine in misura maggiore al 20% dell’organico complessivo; si fa salvo, comunque, l’intervento della contrattazione collettiva in materia di limiti quantitativi al contratto.

Infine il singolo contratto a termine può essere prorogato per un massimo di 8 volte, senza stop and go ( ovvero 10 giorni di pausa tra un contratto e l’altro se il primo aveva avuto durata inferiore di 6 mesi, portati a 20 giorni in caso di primo contratto di durata superiore ai 6 mesi ), senza necessità di causale e con l’unico obbligo che il lavoratore continui a svolgere le medesime mansioni per le quali era stato inizialmente assunto.

Per comprendere l’importanza strategica del contratto a termine acausale in una fase economica difficoltosa, possono infine richiamarsi i contenuti della circolare del Ministero del Lavoro n.18/2012 nella quale quest’ultimo, fornendo le prime indicazioni operative dell’istituto introdotto dalla legge Fornero, ha precisato che tale contratto si configura come una sorta di “prova lunga” nella quale le parti si conoscono e, almeno per quel che concerne il datore di lavoro, si valuta la eventuale proficuità dell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale.