Ragazzi del post cresima di Piazza Tevere incontrano il reduce di Auschwitz Pietro Terracina

«La memoria è un filo che lega il passato con il presente, guardando al futuro». Con questa frase Pietro Terracina, uno degli ultimi reduci di Auschwitz – Birkenau, ha voluto dare il suo saluto al gruppo di giovani tra i 13 ed i 18 anni che domenica a Roma – guidati dai responsabili del post cresima della parrocchia di San Francesco Nuovo del quartiere Piazza Tevere – hanno incontrato uno degli inestimabili testimoni dell’orribile olocausto nazista, consumatosi nel corso dell’ultima guerra mondiale a danno dell’intera popolazione ebraica europea.

E’ una grande stanza piena zeppa di libri quella che ci accoglie, noi accompagnatori e il gruppo di giovani reatini i quali, quasi titubanti, gremiscono la casa romana dell’ex dirigente d’azienda. Ma il suo sorriso, accogliente e caloroso, scioglie subito la tensione, assieme a numerose bottiglie di bevande fresche appositamente preparate per i giovani già accaldati per la prima, vera giornata estiva capitolina.

Indossa una polo a maniche corte celeste, Pietro, ed è così che lo sguardo non può non cadere, immediato, su quel tatuaggio che tutti sanno essere una sorta di sigillo di morte. Recita: A – 5506.

«Dovetti imparare presto, in tedesco, tutte le combinazioni di quel numero – dirà poi Terracina – perché le SS si divertivano sadicamente a chiamarci invertendoli. Se non rispondevamo subito, ci attendevano i bastoni e le zanne dei cani lupo».

Sono circa le dodici quando inizia il suo racconto e così, accompagnati dalla sua voce ferma e spesso rotta da emozione e commozione, iniziamo con lui quella che egli stesso definisce «una storia di morte e desolazione».

Colpisce la sua lucidità, la capacità – dopo i profondissimi momenti di emozione – di riannodare le fila del discorso; ricordare con dovizia di particolari nomi, luoghi, episodi. Oltre due ore di un privilegio unico e nello stesso tempo quasi devastante: un viaggio in prima persona nel luogo principe della Shoà.

Le immagini viste tante volte in tv ed al cinema si fanno presto carne, realtà. Ed è una realtà che fa male. Dentro. Non fa sconti, Pietro Terracina. Non ne fa alla storia, agli uomini, ai protagonisti negativi della sua tragedia. Inizia parlando delle leggi razziali del ’38 che troppi, oggi, dimenticano, affannati nello sdoganamento raffazzonato e superficiale dei “nuovi fascismi” e dei “nuovi Duci”, come li definisce lo stesso Terracina, senza nominarli ma mettendo in guardia i giovani dal pericolo che la storia possa ripetersi.

«Ero stato promosso in quinta elementare – ricorda – e non posso dimenticare quando la mia amata maestra, Milano si chiamava, mi disse: da domani tu, Pietro, non potrai più venire a scuola. Quasi disperato le chiesi: ma perché? E lei mi rispose con due sole parole: sei ebreo!».

Poi arriva a quel terribile 7 aprile del 1944 (una data che ripeterà più volte) quando con la sua famiglia fu arrestato. «Era Pesach quel giorno – dice in ebraico, riferendosi alla Pasqua – ma non finimmo di celebrarla. Due SS, guidate da due delatori fascisti (dunque italiani, sottolinea; n.d.r.) ci diedero venti minuti per prepararci».

E continua: «scesi in strada una camicia nera ci chiese dov’erano denaro e preziosi, sostenendo che gli sarebbero serviti per corrompere i nazisti e così liberarci. Non era vero: era solo uno sciacallo. Da quel momento ebbe inizio il nostro inferno sulla terra».

Prima a Regina Coeli; poi nel campo di Fossoli, frazione di Carpi in Emilia; poi la terribile esperienza del “treno della morte” per Auschwitz.

I ragazzi ascoltano, spesso commossi, soprattutto quando Terracina ricorda il saluto, l’ultimo, della madre appena giunti nel lager. «Mamma aveva capito tutto», dice: quello del padre. Particolare l’emozione quando ricorda la sorella Anna: proprio seguendo lei, quella mattina del 7 aprile, la spia fece arrestare i Terracina. Concluso il racconto, le domande dei ragazzi sono un fiume in piena.

«No – dice rispondendo ad una di esse – non ho perso la fede. Nei momenti più duri la preghiera mi ha sostenuto, assieme alla solidarietà di tanti sventurati come me». Solidarietà, amicizia. Due dei valori su cui più volte Terracina si sofferma, sollecitando i ragazzi ad abbracciare la via del bene, del sostegno al bisognoso, a chi è in difficoltà.

«Quando tornai a Roma dopo essere guarito grazie ai sovietici (ricorda, sorridendo, la sua partita di calcio con i membri dell’Armata Rossa; n.d.r.) non avevo più nessuno. Ero solo. Ma la solidarietà e l’aiuto di tanti amici, compagni, fratelli nella fede mi ha dato quelle opportunità che mi hanno poi permesso di avere una vita piena di soddisfazioni, anche personali e professionali».

Non vorremmo mai andar via da quel posto così zeppo di ricordi ma così importante: e Pietro, quasi intuendo, non si sottrae al calore dei ragazzi e si fa fotografare insieme a loro, in un ideale abbraccio reciproco con un unico, vero obiettivo: non dimenticare.