Quella tenda ci insegna qualcosa

L’atteggiamento di Abramo nell’episodio delle querce di Mamre, e le attese che caratterizzano la sua persona, vengono rilette da monsignor Lucarelli come “specchio” di quello che è lo spirito di questa Chiesa e dei suoi membri. L’interpretazione spirituale e la meditazione pastorale che il vescovo propone nel documento parte proprio da un mettersi nei panni del patriarca, il quale, scrive Lucarelli, «non attende soltanto un figlio, né solo il semplice avverarsi di una promessa di ordine politico o religioso». La sua è un’esistenza che ha già vissuto tante delusioni e amarezze, eppure egli resta il “padre dei credenti”. Che cos’è, infatti, la fede se non «la sfida e il rischio ineludibile di ogni credente, sperare contro ogni speranza, ma anche restare al termine della vita con le stesse attese non appagate della giovinezza»? Tale, secondo la riflessione del presule, è pure «la sfida e il rischio della Chiesa Cattolica e di questa nostra piccola porzione di popolo di Dio» che è la comunità cristiana di Rieti. Anche qui, infatti, non mancano le attese «che non si sono ancora realizzare e vorremmo che, invece, vi fosse una soluzione ai tanti problemi e una gratificazione del lavoro pastorale che svolgiamo e che abbiamo svolto nel corso degli anni e dei decenni». Verrebbe da dire: ma quand’è che questa discendenza, questa terra nuova, questa benedizione speciale si farà concretamente vedere? L’atteggiamento di Abramo diventa in questo senso emblematico.

Il primo punto su cui monsignore invita a riflettere è il suo stare “all’ingresso della tenda”. L’atteggiamento tipico del nomade, di chi «vive fino in fondo la precarietà della vita e anche della fede, a cui Dio ha fatto una promessa irrazionale. Insieme a sua moglie ha speso gran parte della vita ad inseguire un sogno che, forse, non vedrà mai realizzato». Insomma, di colui che non si sente mai “arrivato”, di chi non accampa certezze, di chi ha l’umiltà di accettare di essere sempre un po’ “precario”. Modello per una Chiesa capace di fiducia e umiltà: «essere capaci di sostare dopo le nostre fatiche quotidiane e pastorali per cercare di capirne il senso, ma anche per sentirci nomadi in questo peregrinare nel mondo, consapevoli che il nostro destino, chiamiamolo così, è nel Regno ove sarà realizzata anche per noi la promessa». Una sottolineatura importante, questa: spesso si dimentica che i tempi di Dio non sono i nostri, si pretende di raccogliere i frutti della semina, si è impazienti nel vedere compimenti quando la pienezza, ricorda invece monsignor Delio, non è di questo mondo. La tenda, dunque, come immagine di precarietà, a richiamare anche «la condizione di estrema caducità della nostra vita e delle nostre certezze».

Ed è qui, all’ingresso della tenda, che la scena dell’episodio scelto dal vescovo coglie il patriarca. Un atteggiamento, però, sottolinea il presule, che non va letto come «ozio che segue lo sconforto del fallimento; è riposo a seguito di fatiche e di speranze al momento disattese. Ma è un riposo in cui, seppur l’ottimismo della prima ora ha lasciato spazio ad una certa delusione, non manca la speranza nell’intervento di Dio». Stanchezza, insomma, ma fiduciosa. E Dio sa quanto un atteggiamento del genere sia desiderabile per la Chiesa reatina! Sarebbe infatti deleterio se lo “stare all’ingresso” diventasse un “tirare a campare” inoperoso e sfiduciato… E il testo del documento lo dice chiaramente: la comunità ecclesiale reatina ha bisogno proprio di questo, di sperare «nell’intervento di Dio dopo il lavoro e le fatiche che ci siamo lasciati alle spalle e che ancora sono davanti a noi». Sostare all’ingresso, allora, non come emblema di ozio, ma di tutt’altro atteggiamento: quello di «verifica, anzitutto della nostra vita cristiana e poi della nostra attività pastorale». Verifica che non esclude anche la capacità di autocritica, il coraggio di avere una sincera «visione retrospettiva degli errori fatti e delle mancanze inevitabili». Ed è qui che Dio, come con Abramo, torna ad agire.