Quel bimbo non è Pinocchio

In un campo profughi ai confini d’Europa un piccolo scalda i piedi sul fuoco

C’è un bambino che si scalda i piedini vicino al fuoco, ma così vicino che in realtà li scalda proprio sul fuoco. La telecamera lo riprende e dal televisore ci rimanda le immagini mille volte in questi giorni. Siamo in un campo profughi, ad uno dei tanti confini bloccati di un’Europa preoccupata e timorosa di fronte a qualcosa che non ma hai affrontato finora. E si difende alzando muri, barricate, filo spinato. Nel fango, nel freddo, mentre cala la sera, c’è questo bambino scuro che protende i piedini sporchi, le caviglie smunte, verso un fuoco improvvisato ma provvidenziale dopo tanto cammino. Li stende come i nostri bambini allungano le mani alle fiamme basse del camino con gli spiedini ed è tutto un rincorrersi di voci di mamme “attento, ti bruci”. Oppure come in mille film americani, dove nei campi estivi ragazzini non sempre innocenti ridono facendo abbrustolire caramelle zuccherose. Ma lui non sorride, non è in campeggio. Avvicina i talloni al fuoco, uno per volta, e li fa quasi rosolare, li rigira per godere del caldo, per alleviare la fatica, per riposarli dalle scarpe sformate, che non si capisce se sono ancora troppo grandi o se sono ormai troppo piccole.
Appoggiato sui gomiti allunga le gambe magre, come se sopra non avesse vesti sgualcite, logore, un giubbottino blu. Come se il freddo che c’è potesse essere riparato solo scaldando le estremità. Li avvicina talmente tanto che ti chiedi se non senta dolore e ricordi le pagine di Pinocchio che siccome “non aveva più forza di reggersi ritto, si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano pieno di brace accesa. E lì si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno, gli presero fuoco e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere. E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se i suoi piedi fossero quelli d’un altro”. Ma il piccolo siriano, per quanto distrutto dalla stanchezza, non è un burattino avventato, lo sa che i piedi sono i suoi e che non c’è possibilità di avere un ricambio di “due piedini svelti, asciutti e nervosi”.
Non è di legno, è già di acciaio. Lo dice il suo sguardo duro, quello che hanno i bambini cresciuti nelle periferie dove è scomparsa la tenerezza, occhi di velluto scurissimo senza traccia liquida di tristezza, carichi soltanto di diffidenza, determinazione, dignità. Le inquadrature si fanno compassionevoli, indugiando sul movimento lento e costante delle gambine non si può fare a meno di pensare quanto sono sporchi quei piedini. Persino i piccoli rom costretti all’elemosina mostrano guance impiastricciate e nasini incrostati, ma le scarpe, beh quelle le hanno. Piedi così anneriti, così da vicino, si vedono solo nei quadri del Caravaggio, che non aveva paura di dipingere la miseria, di raffigurare la povera gente per quel che era, che è: chi cammina scalzo non può mica essere anche pulito. Con quale acqua poi? Quella poca che c’è serve a bere, lavarsi è un lusso per chi non sa se arriverà a sera, né dove potrà dormire, riposare, mangiare. Una torma affamata e senza speranza, novelli barbari, pronta a irrompere e occupare nazioni esauste. Ma secondo l’Unicef tra i soli profughi siriani ci sono quasi due milioni e mezzo di bambini: rappresentano più della metà del totale. Altrettanti sono stati costretti a lasciare le loro case in Iraq, Afghanistan o altri paesi in conflitto. Carichi di bagagli, per quel che possono portare, percorrono decine di chilometri sapendo che alle loro spalle è tutto perso e davanti a loro nulla è sicuro. Il bimbo senza nome non minaccia, non chiede, non invade. Si scalda i piedini inzaccherati e aspetta di sapere cosa accadrà domani.