Quando la libertà non è sinonimo di dialogo

Gli eventi accaduti in questi giorni a Parigi hanno portato il mondo intero a focalizzare la propria attenzione su due termini, “libertà” e “paura”. L’Europa multietnica e multiculturale si è trovata d’un tratto costretta a fare i conti con il lato peggiore della globalizzazione, ossia quello di aver portato il vuoto, il disorientamento e la disumanizzazione, dopo aver reso il mondo più piccolo e tutti più vicini. Come scriveva qualche anno fa lo storico Andrea Riccardi, la società globalizzata si mostra essere «una società dove il pluralismo religioso genera relativismo o il suo contrario, l’estremismo». L’Europa si sente minacciata dall’altro, dal diverso, si guarda attorno con paura e preoccupazione, quasi vorrebbe rialzare quelle frontiere e quelle mura che ha da tempo abbattuto per favorire gli scambi economici.

Oltre la paura, la libertà. Parigi, e non solo, si è trovata improvvisamente tappezzata da striscioni di vari colori su cui era scritta questa parola, come se fosse essa la vera fonte della pace e della sicurezza di un popolo o, peggio ancora, come se essa fosse il fine a cui un essere umano deve anelare. Ma Parigi ha dimenticato che la libertà non è il fine ma solo un mezzo utile per la realizzazione del bene comune. Parigi ha dimenticato che la libertà di espressione, tanto osannata, non può mai contraddire la libertà per il bene.

Non ci si può allora considerare liberi di essere blasfemi ed offensivi, come non ci si può ritenere liberi di uccidere gli altri. Parigi, allora, ci esorta a ripensare il termine “libertà”, che, a mio giudizio, deve essere legato a quello di “incontro” e “dialogo”. Siamo all’interno di un mondo al plurale, sempre più a rischio di fratture e collassi, ma all’interno del quale il tema del dialogo emerge come prioritario per accogliere la diversità. Come affermava nel 2008 il papa Benedetto XVI, «occorre fare in modo che le persone accettino non soltanto l’esistenza della cultura dell’altro, ma desiderino anche riceverne un arricchimento». Solo un’educazione al dialogo può salvare l’Europa, in quanto esso è apportatore di incontro e di vicinanza tra popoli e culture, ma per essere autentico deve fondarsi sul rispetto per gli altri ed essere animato da uno spirito di riconciliazione e fraternità. Se manca questo, le tante “libertà al genitivo” (di stampa, si espressione, di parola, di studio, di lavoro, di circolazione…) non porteranno mai la pace e la felicità tra uomini, i quali sono nati liberi per amare. La libertà non può contraddire l’amore e si è liberi solo nella misura in cui si ama e si rispetta l’altro e la sua cultura.

Scriveva, durante la Seconda Guerra Mondiale, nel suo Diario l’ebrea Etty Hillesum: «Non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si patisce sempre da una parte e dall’altra». Le atroci e disumane immagini che hanno, dall’Europa come dall’Africa e dall’Oriente, tempestato i nostri televisori ci hanno reso ancora una volta purtroppo attuali queste sue parole nell’attesa che ci sia, come lei amava dire, «una nuova fioritura».