Quando il lavoro soffoca

Il caso dello stagista tedesco morto dopo tre giorni consecutivi in azienda

Ha suscitato scalpore il ritrovamento di Moritz Erhardt, un ragazzo ventunenne tedesco, privo di vita nel suo appartamento a Londra. Uno stagista presso un’importante banca statunitense, uno studente bravo e fortunato che aveva vinto un tirocinio ben pagato in uno dei posti più ambiti al mondo. Tra le cause della sua morte è da ascrivere il troppo lavoro: per ben figurare di fronte all’azienda per tre giorni consecutivi tornava a casa solo per una doccia e, dopo, di nuovo al lavoro.

È emerso successivamente che la pratica è diffusa: raccontano altri tirocinanti che è possibile raggiungere le 100 – 110 ore settimanali, per dimostrare ai dirigenti professionalità, ambizione e abnegazione sul lavoro. Ma a quale costo?

L’episodio rivela molte incongruenze che non si limitano al nostro sistema economico europeo, ma contagiano altre sfere della società.

Infatti, da una parte, assistiamo al paradosso di giovani espulsi ed emarginati dalle attività produttive e altri schiacciati e soffocati dal super lavoro. In entrambi i casi si mettono in primo piano le esigenze della logica del profitto rispetto a quelle della persona umana.

Se scendiamo più in profondità, dall’altra parte, vediamo l’impoverimento della sfera culturale della nostra società. L’episodio suscita interrogativi sul senso della vita per questi giovani disposti ad autodistruggersi per entrare nell’élite globale.

Dovremmo comprendere come la nostra Europa getta le basi per la costruzione dell’auspicata società della conoscenza. Ci dovremmo chiedere quale tipo di conoscenza, per quale immagine di uomo.

Perché sembra che la conoscenza unica da trasmettere alle nuove generazioni è quella della tecnica applicata, quella circoscritta all’implementazione di innovazioni per alimentare i mercati e garantire un’occupazione. Purtroppo appare questa anche la filosofia sottostante al documento “Europa 2020” che avrebbe dovuto porre obiettivi di “una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, limitandosi a richiamare stimoli per ricerca e innovazioni hi tech e tralasciando tutta l’area delle scienze umane tra l’altro storicamente feconde nel vecchio continente. L’idea di uomo che emerge è quella di tecnico, con “curricula studiorum” più o meno titolato, capace di competere con gli altri, finché non saranno consunte le sue abilità.

Per contrastare questa deriva occorre invece recuperare la sfera umanistica, come spiega la filosofa Martha Nussbaum quando sottolinea alcune attenzioni dei sistemi di istruzione per sviluppare capacità per vedere il mondo dal punto di vista di altre persone; per insegnare a confrontarsi con le fragilità, i limiti e le inadeguatezze; per alimentare la sensibilità verso gli altri; per valorizzare le minoranze e incoraggiare la responsabilità. Anche a partire da qui si potrebbe iniziare a restituire un’immagine di uomo piena e complessa.