Profughi tra i monti. Dall’Africa alla Valle di Susa, ma l’obiettivo è passare le Alpi per arrivare in Francia

Da qualche mese la marcia disperata dei migranti arriva anche nel Piemonte occidentale, per fermarsi davanti al muro delle montagne, a Bardonecchia. Qualcuno ha tentato di passare il confine attraverso la galleria ferroviaria del Fréjus, altri in Valle Stretta e al Colle della Scala provano ad arrivare in Francia. Le parole preoccupate del sindaco, la mano tesa di un gruppo di giovani della parrocchia di Lucento.

Sono invisibili, non fanno nulla per apparire; neppure il colore della pelle li fa uscire dalla loro condizione di “sommersi” che aspirano ad essere “salvati”. Sono i profughi; tutti giovani, alcuni giovanissimi, parecchi i minorenni; fuggono dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla povertà. Partono dalla Costa d’Avorio, dalla Nigeria, dall’Eritrea, dalla Guinea Bissau e attraversano deserti, affrontano rischi, subiscono angherie e torture di ogni tipo a volte dalle stesse “autorità” (quelle libiche sembrano distinguersi in disumanità) che dovrebbero aiutarli e proteggerli.

Persone poco gradite. Poi trovano il modo di salire su un barcone in Libia e attraversano il mare con la compagnia e l’aiuto dei poco raccomandabili “scafisti”; rischiano di naufragare tra le onde del Mediterraneo, di essere abbandonati tra le onde. I più fortunati vengono salvati e portati sulle nostre coste. Da qui comincia un’altra avventura. C’è chi fugge dai centri di raccolta, sale lo stivale italico e prova a oltrepassare il confine perché, in mezzo a noi, proprio non vuole e non è interessato a stare. Vuole andare in Francia ma, dall’altra parte, queste persone proprio non sono gradite.

Alla faccia degli impegni internazionali e di parole come solidarietà e accoglienza

ormai svuotate di significato nell’Europa delle burocrazie, degli Stati “sovrani” e delle opinioni pubbliche sempre più permeate da xenofobia e razzismo.

Tunnel assassino. Così, da qualche mese, più o meno dalla fine di giugno, la marcia disperata dei profughi arriva anche in Valle di Susa per fermarsi davanti al muro delle montagne, a Bardonecchia. Non sono i numeri di Ventimiglia o di altre zone del nord Italia, ma le stime parlano di 20-30 persone al giorno che dalla Perla delle Alpi tentano (alcuni ce la fanno) di varcare il confine con la Francia. Arrivano qui perché tutte le altre porte “europee” (Ventimiglia, Brennero, Como) sono blindate. Rischi e pericoli sono tanti.Il primo, ormai “scartato” dagli stessi disperati in marcia, fino a qualche tempo fa era la galleria ferroviaria del Frejus.

Avventurarsi nei 14 km del tunnel significa ingaggiare una sorta di roulette russa con la morte: la probabilità di essere risucchiati sotto i binari da un treno in transito è altissima. Così, 24 ore su 24, all’ingresso italiano del tunnel staziona un blindato con due alpini, fucile a collo. Mentre le Ferrovie stanno ultimando (dovrebbe essere pronto in questi primi giorni di settembre) la posa dei dispositivi che rilevano la presenza di persone all’interno del tunnel; sistema che sul lato francese è attivo da tempo e che, sul lato italiano, viene realizzato con tempi record per un soggetto mastodontico come le Ferrovie italiane.

Avviso in cinque lingue. I profughi che arrivano col treno a Bardonecchia e che vengono attesi e controllati dalla polizia italiana (senza essere fermati) sono comunque messi in guardia dall’avviso, scritto in cinque lingue, comprese quelle arabe e africane, affisso sui muri della stazione: “Attenzione pericolo! Se stai pensando di entrare in Francia percorrendo a piedi i binari del treno, fermati! Già alcune persone hanno perso la vita, poiché la linea ferroviaria passa in una galleria stretta e in caso arrivasse un treno non c’è lo spazio per spostarsi di lato e salvarsi. Quindi non tentare di passare il confine a piedi seguendo il percorso del treno: rischi di morire!”. “Abbiamo deciso di mettere quegli avvisi d’accordo con il Conisa – spiega il sindaco di Bardonecchia, Francesco Avato – perché la nostra prima preoccupazione è proprio quella di evitare che queste persone rischino la vita dentro il tunnel”.

Sentieri fra i monti. L’unica strada per i sommersi che vogliono salvarsi rimane quella dei monti. Due le vie possibili: il Colle della Scala (1750 metri) e poi la discesa a Briançon. Oppure la Valle Stretta, sei ore e più di marcia a 2000-2500 metri sotto il monte Thabor per provare ad arrivare a Modane.

Un cammino che deve fare i conti con i pericoli della montagna

(affrontata quasi sempre di notte, spesso con equipaggiamento inadeguato) e con la necessità di aggirare il posto di blocco della Gendarmerie francese posto bivio tra il Colle della Scala e la valle Stretta. Poi non resta che sfidare Polizia ed esercito che pattugliano boschi e sentieri con i visori notturni. Tutta la zona oltre confine è di fatto militarizzata.

I giovani tendono la mano. Proprio vicino alla “gare” di Briançon, cittadina francese appena oltre il confine con l’Italia, alcune organizzazioni cattoliche con i movimenti per i diritti dei migranti hanno allestito un centro di accoglienza, sostenuto dal sindaco di Briançon (che pare abbia disobbedito alle direttive del Governo francese e della Prefettura) e “tollerato” dalle forze dell’ordine francesi. Già, il mondo cattolico. Lo stesso che sul versante italiano dà (con discrezione e senza violare le leggi) aiuto ai migranti. Come don Claudio Claudio Curcetti, della parrocchia di Lucento, e dei suoi ragazzi che, durante il campo estivo alla Maison de Chamois in Valle Stretta,hanno visto i profughi passare e non si sono certo girati dall’altra parte.

“Non tocca a me dire – spiega il sacerdote – se sia giusto o no respingere queste persone. Il compito dei cristiani è quello di seguire il Vangelo, dare da mangiare a chi ha fame, vestire chi è nudo, aiutare chi è in difficoltà. Questo facciamo e questo abbiamo fatto. Abbiamo visto ragazzi stanchi, senza un abbigliamento idoneo per la montagna, che, se il tempo gira, rischiano di affrontare il freddo a 2500 metri solo con una tshirt”.

“Nessuno fa il passeur”. Don Claudio, che è impegnato nella pastorale dei Migranti della diocesi di Torino, aggiunge che “nessuno di noi fa il “passeur”, certo non li carichiamo in auto e neppure facciamo trucchi. Ma nessuno ci può impedire di fare un pezzo di strada in compagnia di queste persone”. Già,

non voltarsi dall’altra parte, non far finta di niente ma aiutare e condividere un pezzo di sentiero…

Intanto, al bivio tra Colle della Scala e Valle Stretta, giorno e notte, i poliziotti ai posti di blocco fermano le auto, chiedono cortesemente di aprire il cofano per vedere se dentro c’è qualcuno. E i bardonecchiesi? In paese li vedono: “Una notte appena chiuso, verso l’una e mezza – racconta l’uomo del bancone del bar della stazione – ho visto un gruppetto di profughi. Erano 12, scendevano da viale della Vittoria. Succede tutti i giorni e tutte le notti”. Sono i sommersi che, ancora una volta, chiedono di essere salvati e che continuano a bussare alle porte di un’Europa che pare sempre più chiusa in se stessa.

Bruno Andolfatto