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Preoccupazione per insicurezza alimentare anche in Camerun

A causa del Coronavrius, dice fratel Fabio Mussi, i prezzi delle derrate alimentari stanno già gradualmente aumentando e i primi a subire i contraccolpi della crisi, spiega, potrebbero essere i lavoratori a giornata

Sono 135 milioni le persone nel mondo che, alla fine 2019, risultavano essere in condizioni di insicurezza alimentare acuta: oltre la metà vive in Africa. È quanto emerge dal Rapporto globale annuale sulle crisi alimentari, pubblicato da un’alleanza internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite, agenzie governative e non, che lavora per identificare le cause principali della fame estrema. A rendere più preoccupanti le cifre è un ulteriore dato messo in risalto dal direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale (Wfp), David Beasley, intervenuto ieri in teleconferenza al Consiglio di sicurezza dell’Onu: a causa del Coronavirus, altri 130 milioni di persone potrebbero essere spinti sull’orlo della fame entro la fine del 2020.

Pandemia della fame

Per questo, Beasley ha parlato di una “pandemia della fame” generata dagli “effetti potenzialmente devastanti” del Covid-19, come l’inevitabile recessione economica, il calo delle rimesse dall’estero e il crollo dei prezzi del petrolio per i Paesi a basso reddito, le difficoltà nell’assistenza salvavita e nel reperimento dei mezzi di sussistenza in zone già teatro di conflitti, dallo Yemen al Sud Sudan, dal Burkina Faso all’Etiopia, dalla Repubblica Democratica del Congo alla regione del Sahel.

La situazione in Camerun

Anche in Camerun, dove la situazione è aggravata dai continui sconfinamenti degli estremisti islamici nigeriani Boko Haram e da un conflitto armato nelle zone anglofone, con scontri tra esercito di Yaoundé e separatisti, l’emergenza Coronavirus potrebbe far degenerare l’emergenza alimentare. Con oltre 1.100 casi di contagio e più di 40 vittime, è il secondo Paese più toccato dell’Africa subsahariana, dopo il Sudafrica: la preoccupazione è che se i contagi aumentassero come in Europa si rischierebbe una “ecatombe”. A parlarne con Vatican News è fratel Fabio Mussi, missionario laico del Pime, coordinatore della Caritas della diocesi di Yagoua, nell’Estremo Nord del Camerun, ai confini tra Nigeria e Ciad. “Nelle nostre zone – dice – già si cominciano a sentire i contraccolpi di questa situazione”, anche “nel settore alimentare”: “i trasporti sono molto più rallentati, le frontiere sono chiuse ufficialmente, permettendo il passaggio delle merci ma in forma ridotta, i prezzi stanno salendo gradualmente”. La prima farne le spese potrebbe essere quella consistente parte della popolazione che, spiega, in Camerun vive di “attività giornaliere o saltuarie”, percorrendo a piedi chilometri e chilometri e “portando in spalla mercanzie varie: canottiere, scarpe, ciabatte, lampadine, dentifrici”, oppure “frutta, legumi, ortaggi”.

R. – Nonostante le autorità sanitarie stiano mettendo in atto tutti gli sforzi e le competenze per far fronte al Covid-19, non ci sono le condizioni come in altri Paesi per controllare il virus, nel senso che mancano ancora le attrezzature, manca l’equipaggiamento di protezione di base per il personale sanitario. E inoltre è attualmente impossibile impedire gli spostamenti della popolazione: cioè è vero che una parte della gente qui si può spostare con pullman o macchine ma ci sono ancora tante persone che si spostano a piedi, camminando, oppure in bici o in moto e queste modalità risultano impossibili da controllare.

Al momento quali disposizioni sono state prese in Camerun?

R. – C’è l’obbligo in tutti i luoghi pubblici di lavarsi le mani prima di entrare, di avere la mascherina, di mantenere una distanza di sicurezza di almeno di un metro e mezzo e le scuole sono chiuse da fine febbraio. Queste sono le disposizioni di base che sono mantenute per il momento, ma nei mercati o ad esempio sugli autobus sono difficili da rispettare. Poi in alcuni uffici è stato introdotto il lavoro via internet, ma è molto limitato, perché i mezzi a disposizione sono scarsi: una volta non c’è la corrente, una volta non c’è la connessione, quindi diventa impossibile lavorare da casa.

La maggior parte della popolazione “rurale” ed una percentuale elevata di persone che vivono in città ma in condizioni precarie vanno avanti grazie a dei lavori giornalieri: al momento qual è la situazione nelle vostre zone?

R. – Nelle nostre zone già si cominciano a sentire i contraccolpi di questa situazione, sia nel settore alimentare sia negli altri. I trasporti sono molto più rallentati, le frontiere sono chiuse ufficialmente, permettendo il passaggio delle merci ma in forma ridotta, i prezzi stanno salendo gradualmente e quindi la gente si trova in molta difficoltà. A proposito delle conseguenze dell’attuale crisi, l’altro giorno per esempio mi trovavo all’ospedale diocesano di Tulum e mi è stato detto che l’affluenza è diminuita del 15% in una settimana: c’era una bambina accompagnata dai genitori che non aveva i soldi per l’ospedalizzazione e stava tornando a casa, tenendo presente che l’ospedalizzazione costa meno di un euro al giorno, circa 70 centesimi.

Alla fine dello scorso anno 135 milioni di persone nel mondo risultavano essere in condizioni di insicurezza alimentare acuta. A causa del Coronavirus, altri 130 milioni di persone potrebbero essere spinte sull’orlo della fame entro la fine di quest’anno. Cosa significano questi dati in Camerun?

R. – La popolazione rurale potrebbe essere quella meno coinvolta soltanto se dovessero esserci piogge normali con regolari attività agricole. Coloro che sono legati alle attività giornaliere o saltuarie, soprattutto a livello cittadino, sarebbero i più penalizzati, perché non avendo la possibilità di lavorare quotidianamente per avere anche una piccolo contributo soffrirebbero maggiormente le conseguenze del Coronavirus.

Di quali lavori parla?

R. – Mi riferisco al piccolo commercio giornaliero, di chi con le bancarelle ogni giorno va ai bordi delle strade per vendere. C’è tantissima gente, giovane e meno giovane, che va a piedi, percorrendo chilometri e chilometri, per le strade del Paese portando in spalla mercanzie varie: canottiere, scarpe, ciabatte, lampadine, dentifrici. E in più ci sono quelli che vanno in giro con delle bacinelle, cercando di vendere frutta, legumi, ortaggi.

Le attività umanitarie legate a progetti di emergenza, come ad esempio la distribuzione degli integratori alimentari, può proseguire in questo momento?

R. – C’è stato un momento in cui, per ragioni sanitarie, anche queste distribuzioni erano state sospese per 3 – 4 settimane. Poi, una decina di giorni fa, le autorità hanno riaperto questa possibilità, riconoscendo come forse fosse una disposizione un po’ troppo restrittiva. Il problema è che alcuni degli organismi che finanziavano queste attività a causa del Coronavirus sono stati costretti a ritirarsi. Noi, come Caritas, abbiamo avuto diversi di questi casi di organismi che si sono ritirati perché non erano più in grado di sostenere le spese per i progetti.

Eppure molta parte della popolazione vive di questi sostentamenti, di questi aiuti…

R. – Sì, molti. Tra l’altro queste sono zone già toccate e in modo pesante della crisi di Boko Haram. Si tratta di persone che erano già limitate nei loro lavori e nei loro spostamenti. A ciò si aggiunge questa limitazione degli aiuti umanitari, che influisce moltissimo.

Come vi state muovendo a livello di Caritas?

R. – Stiamo cercando di vedere quali risorse abbiamo ancora disponibili, tenendo conto che nella provincia di Logone e Chari, che è la zona più a nord di tutto il Camerun, noi abbiamo dovuto chiudere quattro progetti, per varie ragioni ma essenzialmente per mancanza di finanziamenti o di ritiro dei finanziatori perlopiù per il Coronavirus. E questo purtroppo costringe a casa 250 persone che collaboravano con noi e che erano il sostegno di altrettante famiglie: tenendo presente che ogni famiglia qui è composta di almeno 7 persone, si intuisce che circa 1500 persone non avranno un’entrata mensile. Ora cerchiamo di capire su cosa possiamo basarci per avere delle risorse e comperare degli alimenti da distribuire. Attualmente stiamo lavorando su dei progetti che sono stati proposti anche della Conferenza episcopale italiana per il sostegno della parte sanitaria, cioè medicine o attrezzature che possono aiutare nella gestione corretta del Coronavirus. Ci sono poi anche altri organismi che stanno aprendo delle piccole finestre per un aiuto e con essi cerchiamo di prevedere un sostegno alimentare per le persone più vulnerabili, anziani, disabili, vedove.

In un momento in cui è stato lanciato l’allarme per un peggioramento della situazione alimentare, qual è il suo auspicio?

R. – Il rischio è che ognuno pensi a sé. L’unico auspicio è che non si lasci perdere quel poco o tanto di solidarietà che c’era finora: qui i contadini dell’Estremo Nord vivono al limite della soglia di povertà, cioè con la previsione di meno di un dollaro al giorno. È gente che sta davvero soffrendo e, ciò nonostante, continua a preoccuparsi e a chiedere informazioni sul momento di crisi che stanno attraversando l’Italia o altri Paesi.

Da Vatican News