Povero un meridionale su due

Un fenomeno sociale che, se non affrontato in fretta, può degenerare

Sono 17,3 milioni gli italiani in condizioni di disagio economico e a rischio di esclusione sociale, secondo i dati di Eurostat – relativi alla fine del 2013 – elaborati dal Centro studi della Confederazione nazione dell’artigianato e della piccola e media impresa. Il dato è superiore a quello di tutti i Paesi europei. In Germania è pari a 16,2 milioni, nel Regno Unito 15,6 milioni, in Spagna 12,6 milioni, in Francia 11,2 milioni. Il rischio povertà riguarda in Italia il 28,4% della popolazione, contro una media dell’Unione europea pari al 24,5%: dopo la Grecia (35,7%), è il più alto in Europa.

Dall’inizio della crisi economica, nel 2008, 2,23 milioni di persone si sono aggiunte al numero di coloro che vivono sotto la soglia di povertà, con un reddito inferiore al 60% di quello medio. L’Italia è in testa sia nella classifica della povertà assoluta – nozione che si fonda sull’idea che sia possibile individuare un paniere di beni e servizi essenziali (generi alimentari, abitazione e beni durevoli di prima necessità) che assicuri il soddisfacimento di bisogni minimi – sia in quella della povertà relativa, che riguarda coloro che non raggiungono una certa soglia di risorse fissata in funzione del livello medio di quelle dei soggetti che compongono l’universo di riferimento e che viene misurata tenendo conto delle risorse economiche di ognuno rispetto a quelle possedute da tutti gli altri.

Il quadro fornito da questi dati chiarisce, in termini generali, la necessità di interventi di carattere strutturale idonei a fornire possibilità di sopravvivenza e di dignità del vivere a quasi un terzo della popolazione italiana. Se si va a disaggregare questi dati in zone geografiche, da un lato emergono le situazioni di regioni come il Trentino-Alto Adige, il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia, il Piemonte, che si avvicinano a quelle dei Paesi del Nord Europa, dall’altro quelle del Sud, che stanno divenendo sempre più drammatiche. Il disagio sociale meridionale supera dovunque il 40% – tranne Sardegna (31,7%) e Abruzzo (26,2%) – e raggiunge il livello massimo in Sicilia, dove riguarda oltre il 55% della popolazione. Le altre percentuali sono queste: Basilicata 49,2%, Campania 49,0%, Calabria 44,9%, Molise 44,8%, Puglia 43,3%. Un terzo del Paese è quindi al livello delle regioni più povere di Bulgaria, Grecia e Ungheria: una situazione definita “terribile” dalla ricerca della Cna, che genera sfiducia, rassegnazione, esclusione sociale, aumento della criminalità, impossibilità di svolgere attività produttiva, perché diventa sempre meno redditizio farlo. Nel Sud, il reddito medio delle famiglie dove l’entrata principale deriva da lavoro autonomo è di 27.546 euro, quasi 16mila euro in meno che al Nord, dove raggiunge i 43.272 euro. Per queste ragioni – che si potrebbero legare tutte in una diffusa e profonda “assenza di prospettive” per il futuro – è ripreso in maniera forte il fenomeno dell’emigrazione interna: nel solo 2013, sono stati 133mila i meridionali che si sono spostati nelle altre regioni, in cerca di sopravvivenza, mentre gli arrivi nel Sud sono stati poco meno di 90mila e la popolazione meridionale si è quindi ridotta di circa 43mila persone in un solo anno.

La situazione è esplosiva e riguarda ormai un soggetto meridionale su due. Potrebbe degenerare da un momento all’altro, in maniera ingovernabile. Non si tratta più di fare “promesse” o di “arginare” quello che non è più arginabile. Si tratta di concepire con urgenza il nuovo, recuperando l’etica della solidarietà e della condivisione dei problemi. L’unica in grado di fornire risposte.