Poesie intime del quotidiano per immagini / VIDEO

Si tratta de “I miei giorni più belli” diretto da Arnaud Desplechin

È stato Francois Truffaut a rendere la macchina da presa una leggerissima penna con cui annotare le minime variazioni sentimentali, amorose, affettive della vita quotidiana di ognuno di noi. Il regista della Nouvelle Vague usava il cinema come un diario intimo su cui annotare, autobiograficamente, i moti dell’anima, nella sua vita di tutti i giorni. Non grandi storie spettacolari come il cinema americano proponeva (cinema americano amatissimo, però, dal giovane autore francese), ma piccole vicende di tutti i giorni, in cui ogni spettatore poteva ritrovarsi perché vere. Storie di educazioni sentimentali, di legami famigliari, di ricerca di se stessi, di sete di felicità, di momenti di tristezza. In una parola: la nostra vita, nel passare del tempo, tra i suoi momenti di stasi e quelli di accelerazione. Poesie intime del quotidiano per immagini. Questa stessa atmosfera sembra rintracciabile nel film di un regista francese contemporaneo. Si tratta de “I miei giorni più belli” diretto da Arnaud Desplechin, autore molto apprezzato nei Festival cinematografici (questo film è stato presentato al Festival di Cannes) ma poco conosciuto al grande pubblico.
La pellicola di Desplechin è un ideale sequel – o piuttosto un prequel – della sua pellicola del 1996 “Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle)”, perché vi ritroviamo il personaggio di Paul Dédalus: allora un brillante trentenne alle prese con lo studio, i sentimenti e le prime ansie dell’età adulta, oggi un uomo di mezza età impegnato a fare i conti con un passato che non sembra essere riuscito a scrollarsi di dosso, e i cui rimpianti appaiono al contrario più che mai acuti e lancinanti. Il nome dell’uomo, Dédalus, è un chiaro riferimento a James Joyce, al suo Stephen Dedalus di “Ritratto dell’artista da giovane (e di Ulisse)”: questo perché il film sembra recuperare, a livello estetico, l’approccio modernista di Joyce e il suo stream of consciousness e perché, a livello tematico, la natura riflessiva di Paul riprende quella dei personaggi del narratore irlandese, diviso anch’egli fra la vocazione per la cultura e il richiamo irresistibile per il viaggio, la scoperta, il contatto e l’incontro con altre realtà. È la memoria a costituire il perno del film: l’indagine dentro se stesso, fra le gioie e i dolori di una giovinezza rievocata con la limpida leggerezza di chi stia sfogliando le pagine di un diario. E di questa giovinezza, “I miei giorni più belli” propone tre capitoli distinti: un fugace episodio dell’infanzia, emblematico per delineare il rapporto fra Paul bambino e sua madre Jeanne, donna violenta e schizofrenica; una curiosa avventura durante una gita scolastica a Minsk, in Bielorussia, al tramonto della Guerra Fredda, quando Paul deciderà di cedere il proprio passaporto ad un coetaneo intenzionato a fuggire dall’area sovietica; e infine, a diciannove anni, il fulmineo corteggiamento e la passione totalizzante per la sedicenne Esther, il grande amore della sua vita. Una pluralità di spunti, di suggestioni e di tematiche che Desplechin dispiega in un’opera truffautiana, che brilla per la limpidità dell’ispirazione e per la morbidezza del tocco registico: un racconto di formazione in cui il letterale “ritorno a casa” del Paul adulto coincide con un viaggio nei ricordi non meno intenso e concreto. Perché il passato, ci ricorda il film, non smette mai di vivere in noi e definisce chi siamo e dove stiamo andando.