La poesia mistica è viva

Lo dimostra il poeta Domenico Fortuna, con le sue “Teofanie quotidiane”

Splendesse così il nostro passaggio/ nel tempo provvisorio”.

Un uomo si arresta stupito di fronte alla bellezza della creazione, tra un “tripudio di giallo nell’azzurro/ Mattutino fra i rami del tiglio”, che gli sembra una “Danza in solare trasparenza” e nello stesso tempo lo porta al pensiero del Dopo. Avviene la scoperta vera di ciò che egli vedeva da tanti anni senza intuirne davvero l’abissale bellezza: le colline che rappresentano anche l’ascesa verso la divinità, gli alberi, gli uccelli, i boschi e le creature tutte. Per la prima volta dunque il poeta trova lo sguardo profondo e nello stesso tempo immediato, creaturale che prima gli era celato dall’abitudine. Il poeta è Domenico Fortuna, che con questo “Teofanie quotidiane” (L’Autore Libri Firenze, 59 pagine), ci dimostra che la poesia mistica non è morta, e che anzi, essa conosce una rinascenza grazie ad alcuni autori, come Alfredo Scarciglia, Achille Abramo Saporiti, Andrea Giuseppe Graziano, impegnati in un nuovo e insieme antico colloquio con l’origine di tutto.

Poesia autenticamente mistica, dunque, tesa non tanto alla comprensione, ma all’unione indicibile, se non attraverso brevi parole, con la divinità. Vi è certamente qualcosa che viene da lontano, in questi versi, che proviene da quel misticismo umbro (terra non lontana dai luoghi dello scrittore) che trova in san Francesco il culmine. Il Cantico delle creature è però un canone inevitabile, una necessaria tappa per arrivare ad una nuova poesia, che, lo si sente, appartiene ai nostri giorni, ma nel contempo partecipa della perennità dell’aspirazione alla fusione con il Principio. La modernità a avvertibile dalla presenza del buio, o delle luci artificiali, della metropoli, che è un luogo deputato alla negatività del vivere, perché lì si nutre “la tribù iniqua degli idoli”, lampeggiano “fatui abbagli” e si pratica il più funesto dei riti laici, “l’adorazione rovinosa del nostro stesso nulla”. La città -intesa come dimenticanza del proprio sé più autentico- è il labirinto della mitologia greca, e in questa poesia sembra prendere il posto della selva oscura dantesca. Al suo opposto vi è la collina, che simboleggia qui il cammino verso l’alto, verso la luce vera che vedremo nel Dopo, ma che è in qualche modo allusa dai colori stupendi delle albe, dei tramonti, di alcuni meriggi. La natura, sembra dire Fortuna, è il luogo in cui è ancora possibile riconoscere il senso della vita e il messaggio del Creatore.

Come in molti mistici, la luce dunque è contrapposta al buio, un buio talvolta dentro di noi, nei momenti di confusione e di crisi. Nella bellezza del creato sembra racchiudersi il senso medesimo di ogni cosa: non vi è un’estetica del creato: la bellezza non è fuori, è dentro, parte integrante del progetto divino. In questo modo il bello non è una aggiunta, un dato esteriore, ma è traccia vivente della natura divina. È così che ogni momento del giorno diviene manifestazione reale di una verità profonda ed inesprimibile. “Lodi ramifica il nuovo mattino/ dal colle di sole ammantato/ irradia obliati sentieri di grazia”: come si vede, attraverso un simbolismo di derivazione medioevale e dantesca, si traccia un sottile filo d’unione tra l’arcaico e il moderno.

Alla fine di questo tentativo di imparare a vedere davvero il mondo vi è l’intuizione che nella natura vi è il messaggio cifrato (che solo il cuore può decifrare) dell’essenza del creato e della fine del viaggio: “Si placa l’inquieta anima per questo/ lucente invito ad approdi di luce”. È una raccolta che consiglieremmo a quanti cercano nella contemporaneità la distanza dalle mode e dai tic letterari e insieme la presenza di una lingua millenaria, mai del tutto tramontata: quella del colloquio con il Numinoso attraverso la contemplazione della sua opera nella vita di tutti i giorni.