Poesia alleata della natura

Finalmente tradotte in italiano le liriche dell’argentino Daniel Calabrese

E quei suoni germogliarono/ come la conversazione tra due alberi che crescono/ e se uno ascolta con attenzione,/ con la testa appoggiata alla corteccia,/ in alcuni momenti sembrano scricchiolare/ parole come ‘specchio’, ‘miraggio’,/ e più lentamente parole come/ ‘croci’, ‘crocette’,/ ‘tabernacoli’”.

Un microfono viene lasciato per una intera notte in un bosco. Un poeta ascolta i suoni delle creature non umane, quando non vi è nessuno a disturbarle. Il poeta è l’argentino, ma di origini italiane, Daniel Calabrese (è nato nel 1962 a Dolores, in provincia di Buenos Aires), da qualche tempo trasferitosi in Cile, che ha pubblicato molti volumi, tradotti in diverse lingue (perfino in Giapponese). Ora, grazie alla traduzione di Alessio Brandolini per le Edizioni Fili d’Aquilone (211 pagine) è possibile leggere il recente “Ruta Dos”, testo di una certa importanza nel panorama della poesia contemporanea. I motivi sono molteplici: il primo è che esso si inscrive nell’alveo dell’attenzione al non-umano, visto non più come territorio di conquista, ma come parte di noi, mondo dal quale ci siamo staccati e al quale siamo tornati con l’arroganza dei conquistatori e dei decimatori. Il secondo è che questa poesia ci dà una bella lezione su cosa voglia dire una visione del mondo svincolata da mode e tic, umilmente volta a comprendere l’altro, nel dolore come negli attimi di improvvisa gioia.

La Ruta Dos non è solo l’arteria stradale che taglia verticalmente l’Argentina, ma è la strada interiore, il mettersi in cammino e in discussione, un dantesco (i riferimenti al Fiorentino sono molteplici in queste liriche) viaggio dentro il labirinto della vita. Sembra quasi, in alcuni punti, di sentire lo stesso afflato poetico, ma anche civile, a favore della natura che ha ispirato la recente enciclica del suo connazionale (e questo è un altro motivo di riflessione) papa Francesco.

E’ evidente in Ruta Dos l’afflato religioso, nel senso più profondo del termine, che comprende il dolore del mondo e lo legge come ritorno alla violenza demoniaca e, avrebbe detto Hannah Arendt, banale, di un uomo abbandonato alle sue ossessioni. Si legga ad esempio la lirica “Perdono”, nella quale si descrive la violenza gratuita dell’uomo contro animali indifesi e che inizia in modo emblematico: “Mai prima avevo visto, su questa terra, una crocifissione”. Il che la dice lunga su come la poesia vera affondi le sue antiche radici in profondità abissali, nelle quali il religioso e l’umano si incontrano senza retoriche e senza compiacimenti.

La natura sembra – e per fortuna – essere tornata al centro dell’attenzione non solo di una esigua schiera di militanti, ma di uomini di cultura, politici, persone comuni che mai come in questi ultimi anni affollano le escursioni non in luoghi esotici, ma nei boschi e nelle colline vicino casa, alla ricerca delle vere fondamenta dell’esistenza.

L’enciclica Laudato si’ è la testimonianza di come la sopravvivenza del pianeta sia diventata terreno di incontro tra tanti, che la pensano assai diversamente in termini politici, ma che hanno capito quale partita vitale si stia giocando.

Il riconoscimento degli errori dell’uomo anche in termini di uso delle tecnologie e di sottovalutazione della natura sta creando un’occasione eccezionale di confronto tra uomini di buona volontà. E non è solo questione di scienza, ma anche di poesia nella sua dimensione più arcaica e radicalmente religiosa. La poesia, infatti, è stata vissuta nella modernità come puro gioco di parole impotenti.

L’argentino Calabrese ci mostra come le cose non stiano così. La poesia è illuminazione di ciò che non si vede e non si sente, ma che esiste. È constatazione di come gli alberi, l’acqua, che San Francesco chiamava sorella, parlino un loro linguaggio, e sentano ciò che l’uomo non può. Sentono di essere anche croce, tabernacolo, e un tempo, a contatto con uomini loro alleati, “impararono delle canzoni campagnole/ nel mezzo d’un silenzio trapanato/ dalle vespe”.

Lo sapeva Francesco d’Assisi – che pure non riteneva d’essere un poeta nel senso alto del termine – lo sapevano anche quelli che sembrano così lontani da lui, il ragazzetto ribelle Rimbaud che si esaltava solo in mezzo alla natura, e ce lo ricorda di nuovo il poeta argentino che conosce il linguaggio degli alberi.