Più la sorte che la cultura

Il successo dei programmi a premi sta proprio nel trionfo del “basso”

C’era una volta il telequiz, programma televisivo che metteva alla prova la preparazione dei concorrenti su uno specifico argomento con domande di difficoltà crescente, fino alla “domandona” finale che portava alla vincita di un cospicuo premio in denaro, direttamente proporzionale alla competenza dimostrata dal diretto interessato.

Le domande erano predisposte da squadre di autori che obbligavano i concorrenti a studiare come si fa per passare con successo un esame. I concorrenti, a loro volta, erano spesso persone eccezionali, magari addirittura “monomaniache” rispetto all’argomento a cui si interessavano, comunque capaci di dimostrare una memoria fuori dal comune.

Quando si parla di telequiz della tv italiana, il pensiero non può non correre all’indimenticato Mike Bongiorno – al secolo Michael Nicholas Salvatore Bongiorno – conduttore italo-americano che ha segnato la storia della Rai e poi di Mediaset (inizialmente Fininvest). Fu proprio lui a inaugurare nel 1954 le emissioni ufficiali della Radiotelevisione italiana conducendo “Arrivi e partenze”, programma in cui intervistava i vip in transito per l’aeroporto di Roma.

Ma a lanciarlo definitivamente nel firmamento televisivo e nella memoria degli spettatori fu nel 1955 “Lascia o raddoppia?”, versione italiana del quiz statunitense “The 64,000 Question” e del suo adattamento francese “Quitte ou double?”. Successivamente fu la volta di “Rischiatutto” e di “Scommettiamo che?”, poi tornò “Lascia o raddoppia?” nell’edizione del venticinquesimo e verso la fine della sua lunga carriera Mike si cimentò anche in programmi più leggeri.

I telequiz di oggi sono molto più facili, non richiedono una preparazione specifica – se non qualche generica nozione di cultura generale – e in molti casi permettono ai concorrenti di vincere grosse somme in denaro contando solo ed esclusivamente sulla benevolenza della sorte. L’esempio più eclatante è quello di “Affari tuoi”, in onda su Rai 1 in prima serata dal 2003, definibile non quiz ma “game show”. Si tratta di un tipico gioco d’azzardo contro il banco, cui partecipano 20 giocatori in rappresentanza di altrettante Regioni italiane, ciascuno in possesso di un pacco il cui contenuto è segreto. Chi fra i giocatori risponde più velocemente alla domanda iniziale (vale la prontezza, non la competenza) diventa protagonista del gioco vero e proprio, che consiste nella scelta del pacco “giusto” che contiene il premio più alto; la maggiore vincita possibile è pari a ben 500mila euro.

Il nuovo corso del gioco a premi si è imposto con forza nelle stagioni televisive più recenti, incrementando l’offerta di programmi che sono molto simili tra loro non solo nella formula ma anche nella struttura, nella scenografia e nella posizione assegnata tanto al conduttore quanto al pubblico in studio.

I quiz di nuova generazione hanno successo perché dimostrano che tutti possono vincere molti soldi contando soltanto sulla buona sorte, oppure rispondendo a domande semplicissime nemmeno lontanamente paragonabili a quelle che il citato Mike Bongiorno rivolgeva ai suoi concorrenti.

Eppure la Carta dell’informazione e della programmazione della Rai, emanata nel 1995 e tuttora in vigore, sull’argomento è chiara: “I programmi a premio pubblicizzeranno i criteri di scelta dei concorrenti e affideranno la scelta a organi che garantiscano la credibilità della sorte. L’ammontare dei premi singoli non dovrà essere esagerato e dovrà avere un rapporto con la difficoltà dei giochi. Trasmissioni con molti vincitori e con premi modici sono più compatibili con lo spirito del Servizio pubblico di trasmissioni con pochi vincitori e con premi maggiori”. Evidentemente, ancora una volta, tra il dire e il fare…