Chiesa

Più fragili ma più solidali. Così si può rinascere dopo il Covid

Il nuovo studio della Pontificia Accademia per la Vita: la lezione dell'epidemia, la sua influenza sulle relazioni comunitarie

La chiamata a sforzi globali, il significato morale della solidarietà, la lezione della fragilità, la sfida dell’interdipendenza, l’obiettivo di attuare un progetto di coesistenza umana che consenta un futuro migliore per tutti.

Sono i punti più significativi della nota messa a punto dalla Pontificia Accademia della vita con l’obiettivo di indicare tutti gli elementi capaci di aprire la strada a una conversione globale al tempo del Covid. E cioè incidere sulle strutture socio-politiche ma, soprattutto, scendere nei cuori delle persone.

L’Humana communitas nell’era della pandemia. Riflessioni inattuali sulla rinascita della vita è il secondo studio preparato dall’istituto presieduto dall’arcivescovo Vincenzo Paglia sull’emergenza Covid, a quattro mesi dal primo, Pandemia e fraternità universale, in cui si cercava di mettere a fuoco il rapporto tra conoscenze scientifiche, globalizzazione e giustizia.

Ora invece l’obiettivo si sposta sull’esigenza di mettere a punto, proprio partendo dalla dolorosa esperienza del virus, un progetto comune di bene capace di ridefinire i punti più a rischio della nostra civiltà, colmando ingiustizie e diseguaglianze. «Questa pandemia – osserva Paglia – rende straordinariamente acuta una duplice consapevolezza. Da una parte ci fa vedere come siamo tutti interdipendenti: quello che accade in qualche parte della terra, ormai, coinvolge il mondo. Dall’altra accentua le disuguaglianze: siamo tutti nella stessa tempesta, ma non sulla stessa barca. Chi ha barche più fragili affonda più facilmente».

Ma è possibile, grazie alla lezione della pandemia, invertire la rotta? Trovare un pensiero che possa trasformarsi in un ringraziamento per la vita data, come se fosse un passaggio verso una rinascita della vita? Quale conversione del pensiero e dell’agire siamo preparati a vivere nella nostra responsabilità comune per la famiglia umana? Sono le domande da cui parte la Nota, che sottolinea innanzi tutto la gravità delle limitazioni imposte ai contatti umani. «Ci ha privato dell’esuberanza degli abbracci, della gentilezza delle strette di mano, dell’affetto dei baci e ha trasformato le relazioni in interazioni timorose tra sconosciuti, lo scambio neutro di individualità senza volto, avvolte nell’anonimità dei dispositivi di protezione». Precauzioni utili ma che tuttavia non hanno impedito i tanti “bollettini di guerra”, le migliaia e migliaia di morti, la sofferenza come dato costante per la maggior parte della comunità.

Con quali risultati? «Abbiamo imparato la lezione della fragilità», si legge nel documento. «“Fragili”. Ecco cosa siamo tutti: radicalmente segnati dall’esperienza della finitudine che è al cuore della nostra esistenza; non si trova lì per caso, non ci sfiora con il tocco gentile di una presenza transitoria, non ci lascia vivere indisturbati nella convinzione che tutto andrà secondo i nostri piani. Affioriamo da una notte dalle origini misteriose: chiamati a essere oltre ogni scelta, presto arriviamo alla presunzione e alle lamentele, rivendicando come nostro quello che ci è stato solamente concesso. Troppo tardi abbiamo imparato ad accettare l’oscurità da cui veniamo e a cui, infine, torneremo». Non è un pensiero che deve sgomentarci. Anzi: «la dolorosa prova della fragilità della vita può anche rinnovare la nostra consapevolezza che è un dono».

Altrettanto rilevante la “lezione della finitudine” e il sogno spezzato dell’autonomia. L’incantesimo era durato fin troppo – si legge nella Nota – e prima o poi doveva accadere che le “nostre rivendicazioni di autodeterminazione autonoma” crollassero per un evento inatteso ma ampiamente prevedibile. Una verità che, viene ancora sottolineato, chiama a “un discernimento più profondo”. La pandemia non è una casualità se consideriamo la catena di connessioni che unisce i seguenti fenomeni: deforestazione, animali selvatici spinti in prossimità degli habitat umani, trasmissioni più facili di virus da animale a uomo, domanda esacerbata di carne con cui nutrirsi, allevamenti intensivi.

E poi la mobilità di massa, i viaggi d’affari, il turismo. Davvero sarebbe sbagliato parlare soltanto di cause naturali: «Questo virus è il risultato, più che la causa, dell’avidità finanziaria, dell’accondiscendenza verso stili di vita definiti dal consumo e dall’eccesso. Ci siamo costruiti un ethos di prevaricazione e disprezzo nei confronti di ciò che ci è dato nella promessa primordiale della creazione».

Certo, la pandemia ha determinato sofferenze e lutti, ma sarebbe assurdo non fare di questa tragedia l’occasione «per apprendere una pazienza diversa: capace di consentire alla finitudine, di rinnovare l’interazione con il prossimo vicino e con l’altro distante«per apprendere una pazienza diversa: capace di consentire alla finitudine, di rinnovare l’interazione con il prossimo vicino e con l’altro distante».

Osserva ancora il presidente della Pontificia Accademia per la Vita: «La pandemia ha mostrato che nessun Paese può procedere in modo indipendente dagli altri, non solo per motivi sanitari, ma anche economici. Quindi è indispensabile una organizzazione che possa essere sostenuta da tutti e che coordini le operazioni nella diverse fasi di monitoraggio, di contenimento e di trattamento delle malattie e che consenta una circolazione avvertita delle informazioni. L’Oms appare indispensabile, anche se certamente ha avuto delle défaillances: dobbiamo imparare dagli errori e migliorare il suo funzionamento. Solo così – prosegue Paglia – potremo rendere effettivo il diritto universale ai livelli più elevati di cura della salute, come espressione di tutela della inalienabile dignità della persona umana».

Serve insomma una nuova visione, una conversione nella prospettiva cristiana, una rinnovata capacità di promuovere un’etica del cambiamento capace di preparare la strada a una rinascita personale e sociale. Il documento vaticano mette al primo posto di questo percorso la “sfida etica multidimensionale”. Vuol dire che sarebbe sbagliato concentrarsi sulla genesi naturale della pandemia senza dare ascolto alle disuguaglianze economiche, sociali e politiche tra i Paesi del mondo. Una sfida etica che ci deve portare a elaborare un concetto di solidarietà più ampio rispetto all’impegno generico di aiutare qualcuno. «La pandemia ci invita tutti ad affrontare e plasmare nuovamente le dimensioni strutturali della nostra comunità globale che sono oppressive e ingiuste, quelle che la sensibilità religiosa definisce “strutture di peccato”».

Una prospettiva che interroga direttamente anche la comunità cristiana chiamata per prima, come osserva ancora Paglia a «comprendere più in profondità che l’incertezza e la fragilità sono dimensioni costitutive della condizione umana. Occorre rispettare questo limite e tenerlo presente in ogni progetto di sviluppo, prendendosi cura della vulnerabilità degli altri, perché siamo affidati gli uni agli altri. È una conversione che chiede di includere ed elaborare esistenzialmente e socialmente l’esperienza della perdita. Solo a partire da questa consapevolezza sarà possibile un coinvolgimento della coscienza e un cambiamento che ci renda responsabilmente solidali in una fraternità globale».

Da qui la chiamata a sforzi coordinati, a una ridefinizione della cooperazione internazionale da cui nessuno può sentirsi estraneo. Due soprattutto i punti da non eludere. Il primo riguarda l’accesso universale alla migliori opportunità di prevenzione, diagnosi e trattamento, che non devono essere riservate solo a pochi. «L’unico obiettivo accettabile, coerente con un’equa fornitura del vaccino, è l’accesso a tutti, senza eccezione alcuna». Il secondo la definizione di ricerca responsabile, tra libertà e influenze politiche, nella consapevolezza che il bene comune anche in ambito sanitario, vengono prima del profitto e dei giochi politici. Da quest’ampia analisi – circa nove cartelle – emergono due questioni cruciali: la prima si riferisce alla soglia di rischio accettabile, il cui rispetto non può produrre effetti discriminatori in merito a condizioni di potere e ricchezza. «La protezione di base e la disponibilità di mezzi diagnostici devono essere offerte a tutti, secondo il principio di non discriminazione».

La seconda riguarda il concetto di “solidarietà nel rischio”. Che vuol dire commisurare interventi e decisioni al benessere di tutti, alla luce di un discernimento etico che sa valutare, nelle diverse occasioni, il bilanciamento più coerente tra azioni e giustizia. «Siamo chiamati a un atteggiamento di speranza – conclude la nota della Pontificia Accademia per la Vita – che vada oltre l’effetto paralizzante di due tentazioni opposte: la rassegnazione e la nostalgia per un ritorno al passato, che si riduce al desiderare ciò che esisteva prima».

Non sarà così. La pandemia ha spazzato via illusioni sbagliate e false certezze. Ma ora dobbiamo unire gli sforzi – è il messaggio finale – per eliminare anche le ingiustizie che hanno concorso alla comparsa e alla diffusione del virus, costruendo un futuro migliore per tutti. L’auspicio possibile è quello di un pianeta, che come di legge nell’Esortazione postsinodale Querida Amazonia, «integri e promuova tutti i suoi abitanti perché possano consolidare un “buon vivere”».

da avvenire.it