Petrarca, mio Petrarca…

“Il trionfo di Laura nell’eterno presente è anche il trionfo dell’amore che essa ha suscitato; la gloria dell’amata è la gloria dell’amante”.
Il lungo percorso dell’amore in letteratura raggiunge la sua punta più alta con il cosiddetto Canzoniere di Francesco Petrarca, il cui vero titolo era “Frammenti in lingua volgare”. Il che non vuol dire amore come lo intendiamo oggi, rapporto di coppia, un inizio, un suo concreto disporsi nel tempo comunque esso vada. Il poeta di Arezzo non ha cantato questo tipo di amore. Marco Santagata, docente di Letteratura italiana all’università di Pisa e curatore dell’edizione del Canzoniere per i Meridiani Mondadori ha il merito di mettere bene in evidenza questo elemento fondamentale in “L’amoroso pensiero” (Mondadori, 201 pagine), una sorta di biografia amorosa e lirica del poeta di Laura.
Attraverso il commento (e la restituzione in italiano corrente delle liriche scritte in volgare trecentesco) di molte delle poesie del capolavoro petrarchesco, Santagata ci conduce in un sentiero apparentemente lineare, quello di un innamoramento non corrisposto, e che invece nasconde molte ombre. Le ombre, lo si sa, talvolta hanno un loro fascino, nonché molti rischi. Ad esempio di cadere nell’egocentrismo, di entrare in una dimensione non reale, di cedere alla fissazione amorosa staccandosi completamente dagli eventi. E dalla storia.
Ma qui ci aiuta a capire lo stesso studioso, citando alcuni precedenti che ci metteranno sulla buona strada per comprendere come mai un uomo colto e maturo si sia consegnato volontariamente ad una storia tutta interiore e completamente fuori da ogni orientamento reale. Ad esempio la poesia dei trovatori provenzali, che cantavano, anche se non sempre, l’amore per l’amore. Il premio era non la conquista della donna amata, l’appagamento erotico, ma il fatto stesso di provare amore. Al di là di suggestive ipotesi come quella di Denis de Rougemont, che indicava nella religione catara, soprattut to nel disprezzo per la carne, le origini di una tale concezione dell’amore, essa penetra profondamente nella poesia d’occidente. Dante la interiorizza fino a dover divinizzare Beatrice per poterla salvare dalla inevitabile contaminazione terrena dell’amore. Ma Petrarca, ci dice Santagata, voleva superare Dante. Voleva dimostrare come la poesia, da sola, senza i commenti in prosa della dantesca Vita Nova, possa diventare romanzo d’amore, da sola, solo in virtù della sua potenza e della sua autenticità. Senza scrivere davvero un romanzo.
E qui il discorso del critico si fa interessante e suggestivo: non è che noi dobbiamo stabilire una equivalenza biografia-opera. Già dagli anni Cinquanta del Novecento si era capito che l’opera non è la vita di un autore. Che l’opera sprofonda in altrimenti inaccessibili abissi immaginativi che la vita cosciente non sfiora. Alla fine non è Laura a trionfare, ha ragione Santagata. La Vergine, cui è dedicata l’ultima, lunga canzone della raccolta d’amore più famosa al mondo appare come mediatrice di salvezza. la Vergine è colei cui Francesco si rivolge per scampare dallo sguardo impetrante della novella Medusa, Laura. È sicuramente la figura salvifica cui si rivolge il poeta consapevole di aver amato la creatura più del suo creatore. Ma a trionfare, forse in maniera non consapevole, è come afferma Santagata l’amore. Questo vuol dire che Petrarca ha portato a compimento un cammino reale ma non materiale: la realtà è la sua comprensione della irrazionalità dell’esistenza e della forza dirompente del desiderio, anche il più nobile. È la celebrazione della circolarità mai conclusa della vita, fatta di carne, di spirito, di brama e di misticismo, in cui, ha ragione il critico, non è possibile trovare una soluzione di continuità, se non nel riconoscimento del proprio “errore”: “Vita e letteratura si travasano l’una nell’altra. Nemmeno Petrarca avrebbe potuto giurare quale fosse la più vera”.