Paolo Onito: una morte come insegnamento

Figlio di nessuno, vittima della sua «diversità», protagonista improbabile della legge di riforma psichiatrica, ha finito i suoi giorni in un prato di periferia ucciso da un sedicenne.

Aveva simulato la vita perché sua madre lo aveva abbandonato dinanzi alla porta della Chiesa ed era finito all’interno di un ospedale psichiatrico dove quel che restava della sua vita infelice si era bruciato in disperazione.

Aveva finto il piacere della libertà e quello di non essere più “diverso” quando la legge “180” lo aveva messo sulla piazza in cerca di un improbabile reinserimento, alla mercé di tutti più che affidato alle cure di tutti.

Aveva persino preso moglie, ma anche il matrimonio si era rivelato una farsa innescata sulla debolezza dell’uomo.

Chissà di chi era figlio Paolo Onito? Forse non lo sapremo mai, soprattutto dopo che la cronaca nera, al solito frettolosa di lasciare posto all’evento successivo, avrà disteso sul suo dramma il manto impietoso dell’oblio.

Sono stati in tanti ad esclamare «povero Paolo!». La sua “diversità” ci commuove, non ci suggerisce facili critiche a leggi affrettate, nate male e peggio riformate, non ci induce ad irridenti commenti per un “amore” tenuto segreto e dal quale è spuntato il tridente che lo ha inesorabilmente trafitto a morte.

La scena è la stessa, un prato di periferia, i personaggi simili a quelli di tanti altri fatti uguali, la storia anonima, identico il copione.

Le turbe psichiche che Paolo si portava dietro erano quelle che ciascuno avrebbe contratto dopo alcuni decenni di costrizione manicomiale: tare irreversibili, ingerite a piccole dosi, definitivamente compenetrate anche nel “normale” quotidiano.

Qui si intreccia l’ordito dialettico sulla “180”, la legge di liberalizzazione dei manicomi. Paolo era costretto in quel luogo, ma nessuno lo avrebbe ucciso, ed anzi lo avrebbero curato: così reciterà chi malvede il provvedimento. Paolo avrebbe dovuto essere seguito amorevolmente, come merita ogni malato: così replicherà il difensore a tutti i costi della legge in questione.

Può sembrare che siano due affermazioni identiche, ed invece sono divise dall’abisso di due logiche contrapposte.

Non tocca certo a noi mettere d’accordo tante teste d’uovo che discettano da anni sui manicomi con risultati che – se confrontati alle deprimenti situazioni pre–legge – rimangono squallidamente sconfortanti nella quotidianità dell’oggi, spesso tragicamente irreversibili, come nel caso di Paolo.

Ci tocca, però, ricavare un giudizio morale su quella parte della società che a lui avrebbe dovuto attendere. Reinserire un uomo dopo anni di manicomio avrebbe dovuto significare possibilità di affetti e di lavoro, uguale dignità con tutti gli altri.

Questo la “180” non lo dice, ed anzi genera atteggiamenti da slogan politico, come quello di divellere i cancelli dello Psichiatrico, e lunghe tiritere di parole, quasi mai tradotte in pratica. Forse, con i cancelli in piedi, un Paolo sarebbe stato ucciso lo stesso, ma chissà mai se il tutto non si fosse potuto scongiurare. E non assisteremmo al quotidiano spettacolo di gente liberata da ogni malanno per decreto legge, definita guarita per un gratuito eufemismo inteso a negare la dignità dell’assistenza, in una società che sperpera in pillole e fiale, cure termali e climatiche, fiumi di danaro.

Quando poi il fondale si tinge di rosso, allora si colloca il fatto nel sociale e si dice, press’a poco, che la rubrica in cui si inscrive la morte è quella che evoca la tragica fine di Pasolini. La legge avanza, indaga, appura, infine condanna prima di suggellare il tutto col timbro della “diversità”.

Un timbro d’archivio che coinvolge la pratica di un giovane appena sedicenne, vittima della sua vittima oltreché di una società che nei suoi estenuanti massimalismi, nella sua irriducibile mancanza di riflessione, sa scrivere e legiferare così, alla lettera, lasciandosi sempre alle spalle un retroterra ingombro di dimenticanze e di silenzi. Proiettando nel “territorio” la sua inesauribile vocazione di rinnovamento sanitario – “territorio” è il termine schick che dilaga nell’ultima perniciosa pensata – vi ritrova i suoi cadaveri anneriti.

La colpa si somma alla colpa nella cadenza ritmata fra le decisioni e gli eventi. E, di colpa in colpa, questa società non risale mai la corrente per tentare di capire, di rintracciare i “perché” di fondo e di debellare i quasi incredibili facilismi con i quali affronta le situazioni dell’uomo. La barca è il populismo ed è sospinta da improvvidi venti materialisti verso ben altri approdi.

Un giovane, intanto, ha commesso una colpa gravissima, l’ultima delle tante delle quali siamo portatori tutti noi dinanzi alla tragica sequenza dei giorni di Paolo, dalla madre in poi. L’unico modo per sperare che ci vengano rimesse sarebbe – mai il condizionale fu tanto d’obbligo – quello di un momento di riflessione per prenderne sinceramente coscienza.

Ma un dubbio ci assale: forse nessuno ne ha tempo e, se lo ha, non ne ha voglia.


L’articolo è apparso originariamente su «Frontiera 2000», anno I, n. 29, del 26 agosto 1984.

2 thoughts on “Paolo Onito: una morte come insegnamento”

  1. fabrizio

    sono felice che altri commenti si sono aggiunti al mio, in quanto il comportamento di PAOLO ONITO non è di sicuro ne da esempio ne da intitolargli una via….. il suo comportamento verso noi che in qui tempi avevamo dai 13 ai 17 anni era persecutorio e assillante, se ti trovava da solo era meglio che scappavi altrimenti erano guai……e di corse ne abbiamo fate in tanti….lui con il suo motorino spaziava….regina pacis ….piazza marconi …..città giardino……borgo……villa reatina…..e più di una volta quelli che avevano già 18 anni lo hanno pestato perché importunava i fratelli più piccoli……quindi ribadisco PARLARE DI LUI COME UN SANTO OFFENDE ME E TUTTI QUELLI DELL MIA ETA’……UNA VERGOGNA ANCHE LA VIA…..era semplicemente un PEDOFILO…..STOLKER…..E MANIACO.

  2. petrongari maria laura

    Le interessanti riflessioni scritte dal Sig. Rosati sono incisive ed investono in profondità le ragioni del male di cui tanti soggetti socialmente rilevanti e persone private hanno avuto ed hanno il carico. Rifletto che non bastano leggi anche se buone a far sparire problemi gravi come quelli che la storia involge perchè spesso decisioni istituzionali, diventano mezzi di giustizia pilateschi per lavarsi le mani rispetto alla responsabilità di realizzare in concreto il bene delle persone. L’indifferenza del prossimo genera mostri e persecuzioni per garantirsi la tranquillità e persare di rimanere con la coscienza e le mani pulite. Occorre costruire una sensibilità collettiva organica e naturalmente individuale su tutto ciò che riguarda l’altro, il prossimo, poichè la comunità è formata da tutti coloro che ne fanno parte e prima o poi il male di uno avrà i suoi effetti anche su tutti gli altri: mai girarsi dall’altra parte. Quante persone oggi sono nel male anche per colpa di persone intrise di ipocrisia e falsità che operano anche a livelli importanti sotto mentite spoglie moralmente parlando?. Pensare e ripensare, ragionare non con superficilaità ma con serietà sulle storture che incontriamo nel quotidiano che ricordano fatti passati, ci può aiutare (peraltro in un mondo liquido e globalizzato anche nel male) ad evitare altri errori nell’agire sociale. Come cittadini abbiamo comunque il dovere di non banalizzare mai eventi tragici e terribili che coinvolgono persone umane di qualsiasi tipo e di cercare di fare in modo che non accadano più.Nessuno è dissociabile dalla responsabilità collettiva.
    M.Laura Petrongari

Comments are closed.