Vita consacrata

Padre Raniero Cantalamessa: «Essere santi significa essere felici»

È stato padre Raniero Cantalamessa, uno dei volti più noti della vita religiosa, a offrire la meditazione per la Giornata Mondiale della Vita Consacrata: un incontro svolto nella chiesa di San Domenico servito dal preludio alla celebrazione della “Candelora” in Cattedrale

Non poteva esserci preludio migliore alla solenne “Candelora” dei consacrati che la meditazione offerta da uno dei volti più noti della vita religiosa, quale è il predicatore della Casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa. Il cappuccino, che oltre alle prediche “ufficiali” nelle mura vaticane, è alquanto conosciuto per le sue apparizioni televisive e la sua presenza costante nella spiritualità del Rinnovamento carismatico cattolico, nel reatino è di casa. Sua, infatti, è la guida spirituale della comunità claustrale delle Clarisse cappuccine eremite, che da alcuni anni abitano il convento di Cittaducale, dove si reca spesso. Un salto in città lo ha fatto volentieri, su invito della segreteria diocesana Usmi e Cism e del confratello padre Carmine Ranieri, vicario episcopale per la vita consacrata, che ha introdotto l’incontro svoltosi nella chiesa di San Domenico. Presenti frati e suore delle varie comunità del territorio diocesano, ma anche altri fedeli interesati a seguire la riflessione del francescano su “Chiamati alla santità: dono e dovere”..

Del resto, santità non è solo roba da consacrati, è la prima cosa che ha detto Cantalamessa. Anzi, è parola che occorre «declericalizzare», perché nella storia cristiana è stata troppo associata a forme di vita particolari. «Oggi, invece, la Chiesa ci sta mostrando, con le canonizzazioni, che la santità è dappertutto». Proprio questo, ha detto il frate, è «uno dei pregi della Lettera apostolica Gaudete et exsultate di papa Francesco: il riportare la parola “santità” alla portata di tutti».

Perché essere santi? «È chiarissimo nella Bibbia, quando ci viene detto “Siate santi perché io, il Signore vostro Dio, sono santo”. Siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, e siccome Dio è santo dobbiamo esserlo noi. Non si tratta di un optional, serve per realizzare il nostro essere. Non è un motivo morale, è ontologico», ha ribadito padre Raniero.

In che consiste, dunque, la santità? Nessuno dubbio: «è essere uniti a Dio». Per nessuno la santità «è di “produzione propria”, perché santo è solo Dio. La nostra santità, anche di noi religiosi, consiste nell’essere uniti a Dio». E in questo nella stessa Scrittura c’è un’evoluzione. Nell’Antico Testamento, ha spiegato il predicatore pontificio, «i modi per essere santi dipendevano molto spesso da cose esterne: bisognava compiere certi riti, visitare certi luoghi considerati sacri, osservare delle leggi (troviamo nella Scrittura il “codice di santità”)»: insomma, «una santità ritualistica, che può essere sciupata ad esempio toccando delle cose impure». Certo, anche nel Primo Testamento «c’è altro: già i profeti e i salmi avevano riportato la santità all’interiore. Nel profetismo è chiaro l’annuncio che la santità “si gioca dentro”… Ma è con la venuta di Gesù che avviene il vero salto di qualità. Non perché gli uomini abbiano fatto dei progressi: è che Dio si è fatto uomo, la santità di Dio si è fatta carne». Non c’è più da guardare a un Dio lontano, a un Dio “tremendo”, ma «a una persona, Gesù: la santità di Dio ha preso forma umana, santità di Dio incarnata». Sparisce, allora, la logica del sacrum come separato: «d’ora in poi essere santi non significa più essere separati da questo o da quello: significa essere uniti, uniti a Gesù».

Ecco, allora, che è necessario domandarsi quale sia il posto di Gesù nella propria vita: «il grado di santità è determinato dal grado della nostra unione con Gesù. Chi trova Gesù trova un grande bene, chi perde Gesù perde più se perdesse tutto il mondo. Colui che vive senza Gesù è privo di tutto, colui che vive con lui è ricco di tutti».

E qui un passaggio specifico per la vita religiosa. Per troppo tempo, frati e suore hanno avuto una formazione «in cui siamo stati abituati ad avere paura dell’amore: l’amore era identificato con sacrificio, mortificazione, obbedienza… Un amore freddo! E invece noi creature abbiamo bisogno di un amore caldo, che scaldi il cuore! Senza amore non si vive». Padre Cantalamessa ha citato la Deus caritas est di Benedetto XVI, in cui si torna a conciliare le due sfaccettature dell’amore: eros e agape. Papa Ratzinger, «contro una teoria protestante, ci ha ribadito che queste due forme di amore sono compresenti, non sono in contraddizione: Dio ci ama con amore di agape (con la sua misericordia, il perdono), ma anche di un amore erotico: ci desidera, ci cerca, come si esprimono i profeti». Ai consacrati, perciò, in un’esortazione: «Noi religiosi abbiamo bisogno di chiedere allo Spirito Santo un amore di questo tipo, sennò non resistiamo, soprattutto oggi».

Occorre uscire dalla convinzione sbagliata per cui prima occorre riuscire nell’imitatio Christi e poi avremo la grazia di Dio: «tutto sbagliato! L’amore di Dio è incondizionato. Non è senza conseguenze ma è senza condizioni. Ristabiliamo l’ordine giusto. Serve un colpo d’ala».

Siamo chiamati, spiega Cantalamessa, «ad appropriarci della grazia di Dio. Un processo che comincia nel battesimo, poi l’appropriazione maggiore si ha nell’eucaristia…. Il canale fondamentale sono i sacramenti, ma non bastano, possono scadere a riti: occorre la fede!».

Solo dopo questa “appropriazione” arriva l’imitazione. «L’amore di Dio è senza condizioni, ma non è senza conseguenze. Come ci ricorda san Giacomo, “la fede senza le opere è morta”. C’è un punto preliminare senza il quale ogni altra imitazione può essere semplicemente mimetismo. Bisogna imitare un punto di Gesù da cui dipende tutto il resto» ed è quello che canta san Paolo nell’inno cristologico contenuto nella Lettera ai Filippesi nell’invitare ad avere “gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù” che seppe svuotarsi della sua divinità, “spogliò se stesso”. Ecco che cosa fare: «Bisogna spogliarci di noi stessi!».

E la santità arriverà alla piena beatitudine. Papa Francesco, ha sottolineato padre Raniero, insiste che «essere santi significa essere felici». Del resto Gesù ha operato una rivoluzione: si era abituati, anche nella letteratura classica, che l’eccesso di piacere comportasse una pena. E invece il Cristo, col passare dalla croce alla gloria, «ha invertito i termini voluttà-pena: ci propone una pena che porta al piacere, alla felicità che dura per sempre».

L’augurio finale di Cantalamessa, allora, è che la giornata della vita consacrata serva «come una ripartenza dello scopo per cui siamo religiosi. Il cammino della fede è come il cammino dell’esodo, fatto di alti e bassi, soste e ripartenze. Perché sono religioso? Perché porto quest’abito?». La risposta sia quella: «per cercare la santità».