Ottobre Francescano

Ottobre francescano, memoria del Transito a Fonte Colombo. Il vescovo: «I buoni frutti vengono dalla testimonianza»

Siamo noi la vigna di Dio, ma piuttosto devastata. È la metafora utilizzata nella Parola della liturgia domenicale a offrire a monsignor Pompili lo spunto per la riflessione del terzo momento dell’Ottobre francescano

Siamo noi la vigna di Dio, ma piuttosto devastata. È la metafora utilizzata nella Parola della liturgia domenicale a offrire a monsignor Pompili lo spunto per la riflessione del terzo momento dell’Ottobre francescano.

Giunti alla vigilia della festa del Poverello d’Assisi, l’appuntamento liturgico presieduto dal vescovo Domenico, dopo La Foresta e Poggio Bustone, è a Fonte Colombo. In un sabato sera che evoca quel 3 ottobre del 1226 in cui Giovanni figlio di Bernardone detto Francesco si spegneva, dopo essersi fatto deporre nudo sulla nuda terra, lì alla Porziuncola. Era un sabato anche quell’anno, passato il vespro, e dunque si entrava nella domenica, e dunque è il giorno 4 quello in cui la Chiesa festeggia il santo.

Ma nella tradizione francescana resta la sera del 3 il momento dedicato a fare memoria del Transito. E prima di vivere il momento in cui si commemora il beato passaggio al cielo dell’umile frate, la Messa in suo onore con le letture domenicali, con quell’immagine della vigna che dal profeta Isaia passa alla parabola dei vignaiuoli omicidi con cui Gesù vuol mettere in guardia coloro che non si mostrano degni dell’eredità del Padre.

Quella vigna che anziché uva produce “acini acerbi”, che non corrisponde al disegno pensato per lei dal suo padrone, siamo  anche noi, sottolinea monsignore. Una prova lo è anche la pandemia, che «al di là delle teorie complottistiche, è certamente legata anche al nostro delicato rapporto con l’ambiente», al modo «con cui noi abbiamo ridotto il creato: ad “acini acerbi” di insostenibilità». E anche riguardo i nostri rapporti interpersonali, non appariamo una buona vigna: un atteggiamento che «anziché “farci prossimi”, ci porta sempre più a misurare le distanze dall’altro».

Di questo non produrre buoni frutti occorre, dice il vescovo, «esserne persuasi». Cosa che aveva ben capito san Francesco, «che però non si è limitato a deprecare i tempi sbagliati, ma si è messo lui, in prima persona, in gioco e ha incarnato nella sua persona un modo alternativo di vivere», con la capacità di «attrarre a sé tanti fratelli colpiti dalla sua testimonianza».

L’unica strada per cambiare è questa, sottolinea Pompili, che invita a rileggere l’esperienza del santo alla luce delle parole di san Paolo risuonate nella seconda lettura, facendo una descrizione di una sorta di «manifesto di quello che potremmo chiamare “umanesimo cristiano”», la strada «da percorrere in positivo» per dare uva e non acini acerbi. La strada che il Poverello ha saputo percorrere, mettendo al centro della sua vita le «virtù, che sembra essere una parola desueta e sono invece le forze da far emergere in noi: Francesco ha davvero abbracciato «quello che è vero, non quello che è falso; quello che è nobile, non quello che è trash; quello che è giusto, non quello che è disonesto; quello che è puro, non quello che è doppio; quello che è amabile, non quello che è horror; quello che è onorato, non quello che è disprezzato».

Ai suoi tempi, ha concluso don Domenico, egli «fu definito un “uomo nuovo”. E non a caso: perché la sua umanità, plasmata da queste onde positive, ne hanno fatto davvero un’altra immagine di Cristo. Non basterà però che ci limitiamo ad ammirarlo».