Omelia del Vescovo in occasione della solennità di Santa Barbara

 

Carissimi fratelli e sorelle,

vi saluto con gioia in questo giorno in cui ricordiamo la nostra venerata Patrona, Santa Barbara.

Saluto con deferenza le Autorità presenti e quanti ogni anno si prodigano per la buona riuscita di questa ricorrenza, anche sotto il profilo sociale e culturale.

Siamo nell’anno della fede e rendiamo omaggio ad una martire della fede, come tante ve ne furono ai suoi tempi e come ve ne sono ancora oggi.

Vorrei analizzare con voi, brevemente, alcuni elementi riguardanti la fede e sfatare, se così mi lasciate dire, alcuni luoghi comuni relativi alla fede stessa, come il suo presunto contrasto con la ragione e con la scienza.

La fede è, anzitutto, ricerca. Dio è in cerca dell’umanità, ma è anche l’umanità che cerca Dio. Si tratta di una ricerca umana non puramente emotivo-sentimentale, ma anche razionale, logica, se volete speculativa, come ci hanno mostrato tanti teologi e filosofi cristiani nel corso del tempo.

Oggi, anche nelle scuole e nelle università, si tende a confondere la conoscenza e la sapienza con la scienza sperimentale, per cui è vero e degno solo ciò che si può sperimentare, ad esempio in laboratorio o in natura.

Per cui conoscenza e verità sono sinonimo di tangibilità; la ragione si occuperebbe di conoscere solo le leggi di natura, senza inoltrarsi nella verità più intima delle cose e della realtà.

Ma la scienza e la sola ragione non bastano ad elaborare i princìpi etici, ad esempio, o a cogliere la complessità della realtà e la sua verità più profonda: non penso solo alla Bioetica, ma anche alle leggi della finanza e del mercato.

La fede è anche disponibilità, apertura al mistero, predisposizione ad accogliere qualcosa di immenso che irrompe dentro di me, dentro di noi.

La fede, tuttavia, è come l’amore; racchiude e custodisce gelosamente qualcosa di inafferrabile, di ineffabile, di incomprensibile, ma nel senso etimologico di ciò che non si può prendere tutto: “si comprehendis, non est Deus” scrive Agostino nel sermone 52, riprendendo un discorso di san Gregorio Nazianzeno.

La fede, come l’amore, può portare a dare la vita: «non c’è amore più grande di questo, dare la vita per chi si ama», dice il Vangelo di Giovanni (15, 13).

In Barbara noi abbiamo l’atto di fede, che si è espresso massimamente e liberamente nell’adesione incondizionata a Cristo: è lo slancio interiore, la passione, la libertà; ma abbiamo anche i contenuti.

Fece aprire una terza finestra nella torre in cui era rinchiusa in onore della Trinità. Sono gli elementi inconfondibili della fede cristiana.

Così, dicevo, è dell’amore: slancio interiore e passione, ma anche conoscenza razionale, dialogo, libertà.

Possiamo vedere, allora, che la fede è l’altra faccia dell’amore e viceversa: essi sono, in qualche modo, l’attualizzazione, qui ed ora, della speranza, che nel linguaggio più laico del nostro tempo, potremmo assimilare all’ottimismo.

In fondo, l’ottimismo è fiducia in un futuro migliore, ma per costruire questo futuro è necessario avere una forte passione, l’amore appunto, e una fede incrollabile in quei valori, umani e cristiani, civici e laici che possono edificare una comunità.

Nel nostro tempo, non solo in Europa e in Italia, anzi in tutto il mondo occidentale, ma anche qui a Rieti, in casa nostra, questa unità di valori è stata accantonata, o perché ritenuta superflua o perché ritenuta antiquata.

Si è pensato che la persona umana fosse in sé disunita, fatta di settori fra loro non comunicanti. Se e quando ha bisogno della religione l’essere umano si rivolge alla Chiesa, se ha bisogno di valori laici e di ideali politici e sociali

si rivolge ai partiti e alle istituzioni pubbliche, se vuole risolvere problemi economici guarda al lavoro e alla produzione.

È stato questo il fine perseguito e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Disgiungere ciò che si è da ciò che si fa ha portato ad una sorta di schizofrenìa.

Vi chiedo di seguirmi in questo breve ma impegnativo ragionamento.

Ai tempi di Santa Barbara, le parti che si contrapponevano erano chiaramente distinguibili: i perseguitati e i persecutori; chi era da una parte, chi dall’altra.

Chi era perseguitato, accettava questo rischio, tranne i casi di coloro che rinnegavano la fede per paura.

Oggi non è così; sembra che ognuno di noi sia allo stesso tempo più cose; soprattutto notiamo una pericolosa doppiezza, anche in coloro che ricoprono importanti cariche pubbliche.

È accaduto nel recente passato, che a fronte di una apparente, anche se non sempre, correttezza formale esteriore, non vi sia stato un corrispondente atteggiamento effettivo interiore e sostanziale.

Sarò più esplicito.

L’attuale dissesto economico di alcune istituzioni pubbliche, qui a Rieti ma anche altrove, è frutto di responsabilità, non solo amministrative e perfino penali, ma politiche e morali, che gravano come macigni sulla coscienza di chi ne è stato artefice.

Costoro devono spiegarlo ai cittadini, e non solo alla magistratura. Vi sono troppi personaggi che continuano a negare macroscopiche evidenze. Devono riconoscere i propri errori e peccati, ravvedersi e pentirsi.

Rieti è una città doppiamente povera: da un lato è povera per le conseguenze di una politica economica globale senza fondamenti etici; dall’altra è più povera per una cattiva amministrazione e per scelte sbagliate o non avvedute.

Le scelte si esprimono anzitutto nella selezione di personale direttivo capace e meritevole, e più ancora seguendo le norme e le procedure previste per l’utilizzo dei soldi pubblici.

Se la fede fosse solo relegata nel chiuso delle chiese e delle sagrestie non me ne dovrei occupare. Ma la fede necessita di essere attuata nella vita concreta.

Ho già avuto modo di dire questo negli anni passati, in questa occasione. La morte di Santa Barbara, di cui stasera verrà trasmessa una fiction su Rai Uno, fu un fatto politico, come era un fatto politico la sua fede, la sua testimonianza.

La nostra devozione a lei è un fatto anche politico, non solo religioso o popolare.

La festività in suo onore, che oggi ci vede tutti uniti attorno all’Altare, deve costituire l’inizio di un modo diverso di concepire la vita e l’impegno sociale.

Anche perché i credenti devono avere chiaro un concetto: saranno giudicati dagli uomini, per il loro operato, ma anche da Dio.

E questo timore, chiamiamolo così, è un motivo in più per operare bene.

Se sapremo ricostituire l’unità della persona umana, che è fede e ragione, impegno civico e religioso, sociale, politico ed ecclesiale, allora avremo un sussulto di novità, una speranza nuova per il futuro.

È l’auspicio del Vescovo, è l’augurio che faccio a voi e alla nostra Città.