Note su una città morta

Sarà che è arrivato novembre. Sarà che siamo, noi, un po’ stanchi ed annoiati. Ma questa città la vediamo proprio triste, sconfitta, rassegnata. Tutto ci sembra fermo, immobile, come irrigidito.

Le notizie sembrano aver perso sapore, la vita cittadina si presenta scolorita, immersa nella nebbia dell’indifferenza. Si direbbe che a nessuno importi realmente di qualcosa. Per giunta, chi prova testardamente ad informarsi tramite i mass media locali, ne esce malconcio. Che odissea! Un vortice straniante lo cattura e lo proietta in un universo parallelo, terribile e ridicolo ad un tempo.

La ZTL divide eternamente i commercianti dai residenti e i residenti da tutti gli altri. La Polizia Municipale regola l’accesso al botteghino delle folle ansiose di acquistare l’abbonamento alla stagione culturale del Vespasiano. In vista del maltempo il Comune provvede (caspita!) alla manutenzione alle caditoie.

Lidia Nobili critica Melilli per le dimissioni da presidente della Provincia. Melilli ritira le dimissioni. Lidia Nobili rimprovera a Melilli di aver ritirato le dimissioni. La Uil esprime soddisfazione per le scelte di Melilli, il PD pure. L’ex parlamentare del Pci Franco Proietti muove una critica. Melilli risponde, Proietti ribatte. Memorabile.

Intanto su Rai Tre si parla dell’accorpamento delle province. Gli opinionisti locali dibattono: sarà meglio andare con Roma, Viterbo, Terni o San Marino? Qualcuno si dice pronto a vendere cara la pelle!

Entra in scena la birra spalmabile, adatta per gli stuzzichini e l’happy hour sul ponte romano. I cassa integrati rimangono quel che sono e la crisi non allenta la presa. L’Imu incombe sulle famiglie. In città migliora la qualità dell’aria.

Niente di nuovo sotto il pallido sole. Quando non discute di acqua calda o di aria fritta, la città è tutta presa dalla solita esaltazione dell’ordinaria amministrazione. I veri problemi rimangono sullo sfondo e alla fine è difficile capirci qualcosa.

Come riconoscere il fallimento se dietro l’angolo c’è una claque pronta a giustificare, a pilotare consenso e dissenso, a buttarla in caciara? E come si misura il successo se ogni cosa buona è esaltata, gonfiata a dismisura, valorizzata più del necessario?

Sembra quasi che i problemi siano invariabilmente destinati ad esaurirsi in chiacchiera, indignazione di maniera, mugugno. Sarà perché abbiamo perso ogni straccio di coscienza collettiva, di senso civico? Perché ci consoliamo con un ambientalismo fiacco e povero di idee?

Qualche amico suggerisce piuttosto di indagare su alcuni sentimenti collettivi. Ad esempio: perché finisce sempre per prevalere una tenace voglia di restare legati alle cose andate? Siamo talmente assuefatti che non ce ne accorgiamo più: il pensiero cittadino è un continuo mescolare rassegnazione ed esaltazione, ma sempre nel segno del «si stava meglio quando si stava peggio».

Si può provare a non crederci, ma a scoraggiarci ci pensano subito gli intellettuali di corte e la solita editoria locale. I soldi pubblici non mancano mica quando si tratta di stampare libri permeati di nostalgia, di pessimismo, di ombre lunghe del passato. Ma ci deve pur essere una ragione, un sottofondo di ostinato scetticismo, se ogni prospettiva di miglioramento finisce per essere raccontata come illusione!

Forse nell’animo reatino si è davvero fatta avanti l’amara convinzione che in definitiva non si può cambiare nulla, che è meglio coltivare il proprio orticello.

È fatalismo? O abbiamo solo preso per buona e fatta nostra l’idea di un declino inevitabile? Riflettiamo: finora a Rieti lo spirito di iniziativa è sembrato inutile, forse anche fastidioso. Può darsi che l’unica imprenditorialità socialmente accettata sia quella che riafferma lo status quo. È vero pure che in politica ancora resistono gli uomini per tutte le stagioni.

Ma non per questo dobbiamo avere un problema con la freccia del tempo! Coltivando il desiderio assurdo di tornare al passato finiamo inevitabilmente per covare un rammarico astioso verso il destino.

Che diamine! Sarà pure un mondo infame, ma almeno non accontentiamoci delle apparenze. Non sarà che il fallimento non è della città, ma di un certo, diffuso modo di viverla e di interpretarla? Forse non è Rieti ad essere morta, ma questa ingegneria delle opinioni, degli obiettivi, dei desideri. Certi schemi, certi intrecci, certi poteri fin troppo collaudati magari ancora funzionano (sempre peggio), ma forse non ce la fanno più a tenere tutto sotto controllo.

Per fortuna la città non esaurisce le proprie possibilità nella politica-spettacolo. Ci sono ancora persone pulite, intellettualmente oneste, sorde alle sirene patronali che pullulano in città. C’è ancora intelligenza, spirito critico, voglia di fare. Prendere atto dei fallimenti va bene, ma non lasciamo che siano l’unica dimensione dell’esistenza.

In fondo, certi personaggi, che vorrebbero incatenarci al «chi te lo fa fare», indirettamente ci spronano. Sta a noi smentirli, farne oggetto di critica, di analisi minuziosa, di sorriso.

E da potenti maestri del pensiero li vedremo rimpicciolirsi a residuo del passato, a concime per il futuro. Qualche giovane pianta potrebbe usarlo per crescere più bella, più sana, con la voglia di allungare i rami verso il cielo.