Il Nord del Mali è una “zona franca”. Il popolo soffre

Il segretario locale, Theodore Togo, racconta le paure per le violenze delle formazioni fondamentaliste. I problemi più gravi riguardano “le questioni sanitarie, l’acqua, il cibo”. La crisi “ha più dimensioni”, non solo quella umanitaria. Avverte: “Gli accordi di pace rischiano di rimanere sulla carta”. Per la riconciliazione nazionale, al centro dei colloqui di Algeri, “occorre ascoltare tutti”.

“Quello che preoccupa la popolazione oggi è il conflitto tra le comunità locali: si spara, e la popolazione cerca di sopravvivere a questa situazione; la paura è rimanere vittime degli scontri, non si può più parlare di questioni come sviluppo e salute”. Theodore Togo, segretario generale di Caritas Mali, riassume così la situazione nel Nord del Paese, a pochi giorni dagli scontri che – a metà luglio – hanno provocato almeno 37 morti. Secondo la versione ufficiale, a scontrarsi sarebbero stati due dei gruppi ribelli attivi nel Nord del Paese: il Movimento Arabo dell’Azawad (Maa) e il Movimento Nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla), espressione dell’indipendentismo tuareg e tra i protagonisti dell’insurrezione anti-governativa del 2012. Secondo un portavoce del Mnla, però, sarebbero state “forze governative” a dare il via agli scontri.

Riconciliazione faticosa.

Questo ennesimo episodio di ostilità arriva in un momento delicato: è infatti ripresa ad Algeri la faticosa trattativa che coinvolge le autorità di Bamako e i ribelli. Il nodo dei negoziati è il futuro delle regioni settentrionali (chiamate Azawad da arabi e tuareg), con i gruppi armati che spingono per ottenere almeno un’ampia autonomia mentre il governo, secondo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri, Abdoulaye Diop, è pronto a discutere solo di una “forma migliore di organizzazione amministrativa”. Ai negoziatori rivolge un appello il segretario generale di Caritas Mali: “Bisogna prendere in considerazione i problemi di tutti – dice – ascoltare tutte le popolazioni del Nord e andare al tavolo dei negoziati tenendo conto di questi punti”. In caso contrario, sottolinea “anche nel caso in cui si arrivi a degli accordi, resteranno solo sulla carta”. Bisogna quindi affrontare, secondo Togo, la questione più ampia della riconciliazione nazionale, un “problema risolto male che è diventato un problema irrisolto”: perché funzioni davvero, è l’analisi “bisogna prendere in considerazione le preoccupazioni degli uni e degli altri”, non intendendo con questa espressione “solo coloro che oggi hanno le armi e la possibilità di utilizzarle, ma anche la massa della popolazione, partita per tornare al Nord e a cui non si dà la parola”.

L’impegno della Caritas.

Proprio sulle condizioni di vita delle famiglie che il conflitto aveva costretto a lasciare le proprie case e a rifugiarsi oltreconfine o nel sud del Paese si concentra il segretario della Caritas: in un primo momento, racconta, soprattutto sulla scia dell’annuncio della sconfitta delle formazioni fondamentaliste islamiche che avevano prima affiancato e poi di fatto scavalcato gli indipendentisti nella battaglia contro il governo “la popolazione si era recata in massa al Nord per reinsediarsi” Ma, continua, “la situazione da qualche tempo è cambiata” e per tutti è difficile “occuparsi dei propri affari”. I problemi più gravi riguardano “le questioni sanitarie, l’acqua, il cibo” e a queste difficoltà la Caritas ha tentato di fare fronte fin dall’inizio della crisi: un compito che continua attraverso progetti “di reinserimento, di ricostruzione, di accompagnamento”, spiega Togo, secondo il quale, però, la crisi “ha più dimensioni”, non solo quella umanitaria.

L’ombra dei fondamentalisti.

Gli stessi gruppi islamici, in effetti, non sembrano essere stati del tutto sconfitti: uno di questi, Al-Murabitun, di matrice qaedista e guidato dall’algerino Mokhtar Belmokhtar, ha rivendicato l’attentato suicida che il 14 luglio è costato la vita a un soldato francese di stanza nella regione di Gao. Il giorno precedente, Parigi aveva annunciato la fine dell’operazione Serval, lanciata nel gennaio 2013 per sostenere l’esercito maliano nella riconquista del Nord: non cambierà però il numero dei militari francesi stanziati nel Paese, 3mila uomini che ora saranno inquadrati nella missione permanente Barkhane, incaricata della lotta al terrorismo nell’intera regione del Sahel. Una questione collegata a quella della circolazione delle armi, che contribuisce a fare, secondo Theodore Togo, del Nord del Mali “una zona franca”. Bloccare il fenomeno, conclude dunque il segretario generale della Caritas locale, senza entrare però nel merito dell’operazione francese, “è una questione di portata generale, che non riguarda solo le popolazioni del Nord o l’interesse nazionale maliano”.