Non autosufficienti: lo Stato batterà un colpo?

È ripreso ieri lo sciopero della fame dei malati di Sla

È ripreso ieri lo sciopero della fame promosso dal Comitato 16 novembre onlus, che vede protagoniste numerose persone malate di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica) che protestano per il ripristino dei 400 milioni di euro da destinare al Fondo per la non autosufficienza. Dopo gli impegni presi dai ministri Fornero e Balduzzi in visita il 31 ottobre al segretario del Comitato, Salvatore Usala, la cifra stanziata è stata pari a 200 milioni di euro. Per questo diverse persone affette da Sla hanno di nuovo intrapreso lo sciopero della fame, minacciando azioni eclatanti se il Governo non accoglierà le richieste. Per riflettere sulla delicata situazione, il Sir ha intervistato Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII.

Come giudica questa forma di protesta?

Ogni protesta va valutata attentamente, a maggior ragione se è fatta da malati come quelli di Sla che richiedono un intervento per essere assistiti in funzioni fondamentali del vivere. Lo Stato deve essere a servizio delle persone guardando il bene comune. In un momento di crisi come questo che impone dei risparmi e dei tagli a chi deve amministrare, deve essere fatto non sulle parti più deboli della popolazione ma su chi ha redditi e pensioni folli, o sulle spese agli armamenti dove per un solo caccia F35 si pagano milioni di euro. La capacità di governare si misura anche sull’attenzione alle fasce deboli della popolazione, dando a ognuno il suo. I malati di Sla non possono attendere come anche altri pazienti terminali. Noi condividiamo e siamo vicini a questa forma di richiamo allo Stato perché sia giusto e dia ciò di cui c’è bisogno realmente.

Minacciare un gesto estremo come la sospensione dell’alimentazione o la “morte in diretta” per mancanza di ventilazione non rischia d’ingenerare un meccanismo perverso nell’impegno per il giusto riconoscimento dei diritti?

Siamo per una protesta nonviolenta e questo deve riguardare sia nei confronti degli altri che di se stessi, per cui se si arrivasse a questi estremi di lasciarsi morire chiederemmo ai nostri amici malati di Sla di trovare altre forme altrettanto forti ma che non ledano il diritto e dovere alla vita e non mandino messaggi contradditori. Nessuna protesta per quanto giusta può mai togliere una vita. Potremmo fare una marcia pacifica su Roma coinvolgendo i media che sicuramente porterebbe al risultato che comunque si vorrebbe ottenere, con la partecipazione di centinaia di migliaia di persone.

Non si corre il pericolo che la politica cerchi una soluzione temporanea per evitare gesti irreversibili e soddisfare l’opinione pubblica, senza pianificare un intervento definitivo per i prossimi anni?

La politica e gli uomini che la rappresentano come servizio al popolo devono appunto, come viene ben richiamato, fare una programmazione che preveda un risanamento economico lungimirante, con la creazione di nuovi posti di lavoro, con il sostegno alla scuola e all’investimento nella ricerca, con politiche giovanili che prevedano la possibilità di un sostegno alla famiglia, alla natalità. Interventi drastici su alcuni settori che sembrano necessari possono cavare qualche soldo ma non risolvono il problema di fondo della produttività e del debito pubblico. In realtà questa crisi non è per la morte ma per la vita, per scegliere nuovi stili di vita improntati alla sobrietà, all’essenzialità. I beni vanno condivisi, allora si moltiplicano e c’è il necessario per tutti, altrimenti i beni accumulati si perdono nei paradisi fiscali e nel mondo delle banche e della finanza.

L’assistenza domiciliare e il sostegno delle famiglie è fondamentale per le persone affette da gravi disabilità o non autosufficienza…

Ogni persona ha diritto a nascere, crescere e anche morire dentro una famiglia. Per cui le politiche sociali devono dare una priorità assoluta al valore della famiglia fondata sul matrimonio, come recita la nostra Costituzione. Perché questo avvenga si deve fare di tutto perché la persona soprattutto se malata possa essere curata, eccetto le fasi acute, all’interno del proprio nucleo familiare, con sostegno domiciliare, educativo, infermieristico, medico; tra l’altro con un risparmio rispetto al ricovero ospedaliero. Una persona che sta in mezzo ai propri affetti vive la malattia anche in modo diverso con un beneficio psicologico e spirituale non indifferente.

Qual è l’impegno della Comunità Giovanni XXIII, da sempre al fianco dei più deboli, per le persone disabili?

In questo momento sono nella nostra missione di Khulna in Bangladesh dove accogliamo nelle case famiglia bambini di strada, molti di loro con handicap fisico e psichico che certamente li condurrebbe alla morte. Ritrovano un papà e una mamma che li rigenera nell’amore e dona loro di vivere una vita serena, con accesso alle cure, alla scuola, a un tempo libero in cui esprimere le proprie capacità. Ormai 41.000 persone siedono alla mensa della Comunità in tutto il mondo nei Paesi dei 5 continenti dove siamo presenti. Circa 3.000 hanno trovato una nuova famiglia e molti di questi sono portatori di handicap. Ogni persona è un dono e una risorsa, anche bimbi piccolissimi con gravissime patologie sono una meraviglia e parlano con dei linguaggi a volte non verbali che necessitano di essere decodificati. Solo l’amore che si fa condivisione guarisce realmente, perché non lascia più soffrire nessuno da solo.