No al referendum. Ora la politica si scuota

No al referendum per l’abrogazione della legge elettorale del 2005, nota come “porcellum”. La decisione della Corte costituzionale sull’inammissibilità dei due quesiti è giunta nella tarda mattinata del 12 gennaio, al termine di una lunga seduta dei giudici, durata un giorno e mezzo, mentre fuori dal Palazzo della Consulta, a Roma, fervevano le dichiarazioni e le “preghiere” dei referendari.

Sull’esito dell’esame della Corte il SIR ha intervistato Cesare Mirabelli, giurista e presidente emerito della Corte costituzionale.

Qual è il significato della decisione della Corte costituzionale?

Evidentemente la Corte ha ritenuto che dall’eventuale abrogazione delle norme sottoposte a referendum sarebbe residuato un testo normativo che non avrebbe consentito il rinnovo del Parlamento senza altri interventi del legislatore. Punto centrale del dibattito sull’ammissibilità o meno dei referendum era, appunto, se si sarebbe mantenuta una legge elettorale adeguata per il rinnovo della Camera e del Senato. Questo è un elemento essenziale: non si possono creare situazioni nelle quali, in assenza di un intervento legislativo, non è possibile procedere al rinnovo delle assemblee.

Cioè, il rischio di “vuoto legislativo”…

Sì, l’incoerenza del sistema che sarebbe emerso da un’eventuale vittoria dei ‘sì’ al referendum era uno dei rischi paventati, ma pure l’eventuale reviviscenza delle norme precedenti. In altre parole, l’abrogazione del ‘porcellum’ avrebbe portato alla reviviscenza del ‘mattarellum’ o a un vuoto che il legislatore avrebbe dovuto colmare per procedere a nuove elezioni? Evidentemente la Corte ha ritenuto che, in caso di vittoria del referendum, sarebbe venuta a mancare una legge elettorale funzionate. Ed è questo vuoto legislativo che determina l’inammissibilità dei quesiti, per l’esigenza costituzionale che questi organi abbiano la provvista di una legge che, indipendentemente da ogni altro intervento, ne consenta il rinnovo.

A suo parere, c’erano margini perché la Corte si pronunciasse in maniera diversa?

Il fatto che abbia discusso così diffusamente su un unico tema significa che è stato fatto un esame approfondito sui quesiti. È vero che, in via generale, se si tratta di un’abrogazione che ridisegna il sistema, come è stato per il sistema elettorale vigente rispetto a quello precedente, è difficile che l’abrogazione di tale norma possa far rivivere la legge precedente, aprendo quindi la strada al vuoto legislativo. Naturalmente ora i giochi rimangono aperti a livello politico, dal momento che è nella piena disponibilità del Parlamento trovare soluzioni adeguate rispetto agli elementi critici dell’attuale legge elettorale da più parti messi in luce.

Adesso, cosa può succedere?

Sarebbe auspicabile un lavoro parlamentare che riguardi la modifica della legge elettorale e alcune riforme istituzionali di rilievo. Mentre il governo concentra la sua azione sull’economia, sul risanamento e sullo sviluppo, le forze politiche in Parlamento potrebbero concentrarsi su queste riforme. Del resto anche in altre remotissime fasi della storia repubblicana l’azione governativa aveva un canale, mentre il governo, anzi l’allora assemblea costituente, si dedicava alle riforme istituzionali senza una contrapposizione tra maggioranza e opposizione.

Vedendo l’attuale classe politica e composizione del Parlamento, secondo lei questo è possibile?

È difficile, ma il Parlamento e la politica acquisterebbero un ruolo e una considerazione rilevanti se riuscissero a ridisegnare alcuni aspetti dell’assetto istituzionale e delle norme elettorali. Qui ora la politica si gioca la sua credibilità. Se il distacco tra opinione pubblica e classe politica si può accorciare, questo può avvenire solo se ci sarà la capacità di risolvere problemi istituzionali e trovare una convergenza su una legge elettorale che consenta una maggiore rappresentatività.