Nel libro “Don Pino martire di mafia”, mons. Vincenzo Bertolone racconta la storia di un santo sacerdote

Nel libro “Don Pino martire di mafia” (Ares), il postulatore mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, racconta la storia di un santo sacerdote

Il 15 settembre 1993, giorno del suo 56º compleanno, intorno alle 22,45, don Pino Puglisi venne ucciso a Palermo davanti al portone di casa.

Secondo quanto ricostruito, il sacerdote era sceso dall’automobile e si era avvicinato al portone della sua abitazione, quando qualcuno lo chiamò e un sicario gli scivolò alle spalle, esplodendo uno o più colpi alla nuca. Una vera e propria esecuzione mafiosa.

Il 25 maggio 2013, sul prato del Foro Italico di Palermo, davanti ad una folla di circa centomila fedeli, don Pino è stato proclamato beato. Nella lettera apostolica letta dal cardinale Salvatore De Giorgi, Papa Francesco ha definito don Pino primo martire della Chiesa ucciso dalla mafia.

Ma chi era davvero don Pino Puglisi? Perché la mafia ha dovuto uccidere una persona, buona, pia, mite, mai aggressiva, benvoluta da tutti? Era uno sgarbo nei confronti della Chiesa cattolica, oppure don Pino stava mettendo in dubbio, soprattutto tra i giovani, l’autorità locale della mafia? Qual è la famiglia mafiosa che ha ordinato l’assassinio? E perché? E come si è svolto il processo di beatificazione?

Una risposta a queste e tantissime altre domande la si può trovare nel libro “Don Pino
Martire di mafia”, edito da Ares, di monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, dall’agosto 2010 postulatore della Causa di canonizzazione di Puglisi.

Il libro, curato dal giornalista vaticanista di ZENIT Salvatore Cernuzio, vanta la prefazione di Pietro Grasso, presidente del Senato già Procuratore Nazionale Antimafia, il quale scrive: “Se volessi provare a racchiudere la storia di don Pino in tre parole non avrei dubbi. La prima è fede… la seconda parola è coraggio… la terza risurrezione… La mafia non uccide in modo gratuito; lo fa quando percepisce qualcuno come un pericolo per se stessa. Ha eliminato don Puglisi perché ne aveva paura”

(da Antonio Gaspari di “Zenit”)

 

Per saperne di più ZENIT ha intervistato l’arcivescovo Bertolone.

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Perché ha scritto questo libro?

Prevalentemente per devozione, rispetto, ammirazione per un sacerdote in cui vita e morte sono un faro di luce per il cammino dell’umanità. Il testo ne segue passo passo le vicende, dall’alpha (1937, Palermo) all’omega glorioso, nel medesimo quartiere, Brancaccio, dove papà Carmelo e mamma Giuseppa gli diedero la vita e dove era ritornato (settembre 1990) da parroco, amato e odiato, tanto da andare incontro alla morte “che aspettava” (15 settembre 1993). Ne ho scritto con un intento: nulla deve cadere nell’oblio di quanto egli fece nelle varie mansioni cui era stato di volta in volta chiamato dal suo Vescovo; nessuna parola – pronunciata o scritta – deve essere dimenticata; nessun gesto passare inosservato. Anche per questo ho voluto “contrappuntare” il testo con innumerevoli citazioni, ricordi, testimonianze, incluse quelle rese in sede processuale dai suoi assassini e quelle dei testi nel processo diocesano di beatificazione. Non solo: l’appendice riporta per intero sei “rimembranze” di chi ebbe la fortuna e l’onore di conoscerlo e frequentarlo ed ancora lo piange e lo rimpiange.

Quale messaggio vuol dare e a chi?

In estrema sintesi rispondo con una incontrovertibile verità: il  bene vince sempre sul male, prima o poi, per come ricorda uno dei titoletti del testo: “La mafia uccide, ma non vince”. Significative le parole di papa Francesco all’indomani della beatificazione: «I mafiosi volevano sconfiggere don Pino Puglisi perché sottraeva loro i giovani, ma in realtà è lui che ha vinto […] dobbiamo pregare il Signore perché questi mafiosi e queste mafiose si convertano a Dio». Un messaggio, quello del libro, destinato in primis ai peccatori, ai fuorilegge, a chi è fuori dalla comunione ecclesiale, ma anche a chi è «nella» comunione, ma vive e agisce come se ciò non fosse, a tal punto si sono intiepidite e annebbiate le parole non solo del Magistero, ma soprattutto quelle del Vangelo. Messaggio, infine, a chi segue “dal di dentro” la Chiesa, Mater et Magistra, perché si senta gratificato, rincuorato, corroborato e riscaldato dalla generosa testimonianza di questo ministro, questo alter Christus, così straordinariamente ordinario.

In sintesi, come scioglie il rebus delle varie mafie?

Credo, umilmente, che né io, né altri come me, né esponenti delle Istituzioni nelle loro varie espressioni e carriere, possediamo la formula chimica per avviare la reazione  risolutiva, ammesso che essa esista. Il contrasto alle organizzazioni mafiose può dare aspettative di successo solo se dispiegato contemporaneamente su più fronti ed in maniera multidisciplinare. Se amministrazioni centrale e periferiche, Magistratura, Forze dell’ordine ricorreranno ( ancor più di quanto già non facciano) ad ogni possibilità che sia gli specifici saperi sia la più sofisticata tecnologia mette loro a disposizione, potranno riportare maggiori successi, mai tuttavia, penso, definitivi. Ed allora, per trovare la soluzione dell’enigma è assolutamente necessario promuovere anche una campagna di informazione/formazione delle coscienze per creare o rigenerare la base etica, che nei confronti delle varie mafie non può e non deve provare altro che avversione e volontà di vittoria. È chiaro che la Chiesa non si tirerà indietro in questo compito, che non è solo nobile e valoriale, ma è anche evangelico, secundum Iosephum Puglisi.

Proprio dalla Chiesa ci si aspetta tanto in tema di legalità: che può fare? Ci sono stati o ci sono ancora ritardi?

Quella che, fino alla svolta del Concilio ecumenico Vaticano II, veniva da molti ancora definita “la Chiesa del silenzio” di fronte a certi fenomeni criminali, è diventata la Chiesa che parla, interpella,  invita al rispetto delle leggi degli uomini e di Dio; che ascolta e vede; che compie una nuova evangelizzazione del bene e della pace, che invita alla vita buona del vangelo; che destituisce di senso ogni via o mezzo criminale; che chiama “agire pagano” e “irreligione” la sensibilità mafiosa, stigmatizzandone il perverso e diabolico tentativo di scimmiottare riti e linguaggi religiosi, o addirittura di adulterare processioni, solennità religiose, santuari e aggregazioni di fede. A partire dagli anni Settanta del secolo XX, poi, la Conferenza Episcopale Italiana ha redatto documenti ufficiali – che rilanciano a livello nazionale molteplici aspetti di questi problemi sociali (frattanto divenuti nazionali e globali) -, tra cui brillano certamente due memorabili testi: quello del 1989, che sollecitava tutti a riorganizzare la speranza; e quello del 1991: “Educare alla legalità”, bello, forte, significativo per l’intera Italia. Ma è soprattutto l’omelia pronunciata da san Giovanni Paolo II nel 1993, nel corso della concelebrazione eucaristica nella valle dei templi di Agrigento a ribadire l’esigenza evangelica di “una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità delle persone e della convivenza civile”. Non fa meraviglia, dunque, che parlando a braccio alla fine della celebrazione, come riferirono tutti gli organi di comunicazione dell’epoca, quel grande e santo Papa poté pronunciare il famoso “grido”:“Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!”.Ed in questa scia si mettono Papa Benedetto a Palermo ed a Lamezia Terme e Papa Francesco  a Sibari ed a Scampia. D’altro canto, è chiaro che le aspettative del popolo di Dio, formato da molte persone oneste, devote, rette, crescono di pari passo con la maturazione delle coscienze e della conoscenza  del fenomeno mafioso. Questa particolare situazione, giudicata con superficialità, può anche essere scambiata con un clima di aspettative deluse, di speranze svanite, di ritardi – da parte della Chiesa – in tema di legalità. Ma la Chiesa esprime ciò che pensa e conferma ciò in cui crede (ed ogni fedele con essa) Puglisi docet. È scomparsa la cosiddetta “Chiesa del silenzio”!

Se la mafia l’avremo sempre con noi, dovremo rassegnarci a convivere con essa?

Assolutamente no. Non è possibile, per i cristiani autentici, convivere con la mafia, anche se i mafiosi si atteggiano a cristiani devoti, frequentano le processioni e  confessano candidamente, o di avere invocato il Signore o  di avere chiesto l’aiuto della Vergine Santissima prima di compiere un omicidio. Infatti, com’è possibile che carnefici e potenziali vittime preghino lo stesso Dio? Perciò, sul piano civile, sociale, quotidiano, i cristiani veri sono chiamati ad una condotta improntata non solo  alla netta contrapposizione, ma a denunciare i mafiosi perché il male non infetti il tessuto sano della comunità. La prassi religiosa non potrà non essere coerente con la condotta civile. In questo modo la fede diventa anche religiosità e religione, senza pericolosi cedimenti a quelle forme deteriori di tradizioni popolari, facili tane dei mafiosi.  Mai arrendersi perché, come scriveva Corrado Alvaro, «la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile». Certo, per costruire una società più giusta, bisogna scegliere da che parte stare, esporsi, sporcarsi le mani perché “se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto”, diceva il beato  Puglisi. È un invito a non arrendersi di fronte alle avversità: nulla è davvero impossibile, se lo si vuole. Insieme, poi, tutto diventa più facile. Anche combattere la mafia.

In che cosa consiste il “metodo Puglisi”? È applicabile sempre e ovunque?

Ha scritto il parroco di Brancaccio: «Molti giovani purtroppo continuano a non avere senso della propria vita perché non hanno trovato in noi questo orientamento preciso, chiaro nei confronti e verso Cristo». Quei sacerdoti di certo non furono testimoni della speranza, perché – sono ancora parole di don Pino ­ «testimone della speranza è colui che attraverso la propria vita cerca di lasciare trasparire la presenza di  colui che è la sua speranza, la speranza – in assoluto – in cui ancora che cerca l’unione definitiva con l’amato». Il quartiere di Brancaccio era una vera e propria “missione” pericolosa e difficile come alcune zone dell’Africa più “nera” o della violenta America Latina, dove la vita di un essere umano non vale un soldo bucato. Eppure egli andò come parroco in lieta obbedienza al suo Vescovo, così disarmato e disarmante com’era, usando l’«arma» della cultura come un grimaldello contro uno status quo che per volere dei mafiosi non doveva essere neppure sfiorato. Fede, Vangelo, speranza, persuasione, capacità di dialogare, invito alla cosca a incontrarsi,  a riconoscere i propri errori: queste le sue armi, alle quali univa il sorriso, la disponibilità, la povertà assoluta, come assoluto era il suo coraggio. Nessuno, però, provi ad immaginare che egli sia stato un prete “contro” la mafia: non c’è solo l’antimafia della repressione, c’è anche quella della speranza che proviene dal Vangelo. Ecco, tutto questo è il “metodo Puglisi”, che è valido sempre e ovunque.

Dalle sue parole sembra discendere, attraverso l’esempio di Puglisi, un invito a non perdere la speranza…

Se un sacerdote, un parroco di periferia degradata, già terreno della mafia, è stato proclamato martire allora non si può, non si deve parlare di disperazione. No! La speranza, peraltro corroborata da un mutato atteggiamento civile e religioso, come ho già detto, c’è, vive, va proclamata e diffusa come una meravigliosa buona novella. «Ciò che importa – diceva don Puglisi ai suoi giovani – è incontrare Cristo, vivere con lui, incontrare il suo Amore che salva. Portare speranza e non dimenticare che tutti, ciascuno al proprio posto, anche pagando di persona, siamo i costruttori di un mondo nuovo», dove, appunto, la speranza non solo è presente, ma è la musa ispiratrice.