La morte di Enzo Tarani, il medico della Rieti-strapaese

L’avevo seguito con il cuore in ansia per oltre un’ora, vedendolo adoperare gli strumenti semplici del medico di una volta, ai piedi di un lettino di un bimbo, direttamente interessato alla diagnosi che avrebbe emesso e che tardava ad arrivare, facendo presagire che non si sarebbe trattato di cosa da poco se un dottore del suo calibro, della sua scienza e della sua sapienza, indugiava a sentenziare, prendendosi minuti su minuti, un’ora e un quarto in tutto, dubbioso ed incerto, prima di dire la sua su un caso che ci aveva messo nei triboli. Poi la diagnosi arrivò ed era del tipo di quelle che ti tolgono il sonno. Ma lui lì a dirti che non c’era da disperare, che bisognava agire e presto. Perché gliela avremmo fatta anche questa volta. Non sbagliò la difficilissima diagnosi, né il felice esito delle terapie che furono ben somministrate al De Lellis. Lui, che ancora studiava su testi in lingua inglese ed era aggiornatissimo, sempre! Pronto ad infondere la speranza che giungeva assieme al suo sorriso e ad una sua battuta in dialetto reatino, modalità di espressione che adorava. Parlo, come avrete capito, del nostro comune amico, dico di tutti! dell’intera città!, del dottor Enzo Tarani, medico sanfrancescano, nato dall’unione di due giovani di famiglie povere, con due nomignoli che in passato contribuirono a fare la storia del rione-strapaese, appunto quello di san Francesco, ove i fratelli e le sorelle della madre erano di due clan come fossero dinastie: i Checcherellà e i Diéce, artigiani della “bolletta” questi ultimi, fabbricanti dei chiodi che si mettevano sotto le suole degli scarponi, perché resistessero in quanto altre, tanto presto, di scarpe non se ne potevano proprio comprare.

Enzo, richiamato in Cielo e finalmente riunitosi alla sua Anna Maria dopo due decenni, grazia che chiedeva al suo Signore ogni dì che fu costretto a vivere senza di lei, fu uno dei primi ad emergere di quel rione di poveri e di senza cultura che era allora l’agglomerato di case che va dal vicolo delle Fontanelle alla discesa di Santa Chiara. Divenne medico quando la nobile professione era di pochi, e iniziò ad esercitarla in marina, prestando servizio all’Accademia e sulla Vespucci, solcando i mari che non aveva mai visto, sconosciuti come quelli della vita, che l’aspettava.

Lo ricordo in divisa bianca, con lo spadino dorato, sottobraccio ad una orgogliosissima Anna Maria, attraversare la piazza: bellissimi, invidiati e felici. Poi al civico ospedale degli Istituti Riuniti di Ricovero, insieme al suo primario Domenico Dionisi, altro grandissimo pediatra, tanto che insieme e senza saperlo, misero su una scuola di professionisti seri e qualificati, non vantandosene mai.

Insomma, Enzo Tarani fece parte di quel gruppo di qualificati sanitari che gestì il trasloco dal vecchio ospedale al nuovo di Campoloniano, il De Lellis, operazione che realizzò il consiglio di amministrazione presieduto dal senatore Marzio Bernardinetti e Fulvio Ubertini, all’interno di un programma di crescita dell’intera città e condiviso, che oggi appare così lontano ed irripetibile! Enzo vi si trasferì assieme ai Cammarota, agli Scapato, ai Faraglia, ai Cati, ai Ciacciarelli, ai Liguori, ai Carrozzoni, ai de Santis, agli Angeloni, ai Dionisi, ai Chiarinelli, ai Burelli ed insieme con molti altri che ho dimenticato e con i quali mi scuso, aggiungendo alle sue specializzazioni di pediatra e di adolescentologo, quella di infettivologo, assumendo la guida della divisione di medicina del nuovo nosocomio all’alba delle urgenze che premevano e che scaturivano dal diffondersi dell’Aids e delle droghe.

Riguardo alle droghe, fu centrale nel combatterle la sua volontà di affrontarle dal lato dell’educazione iniziando dall’avvicinarsi dell’adolescenza, divenendo partner del Provveditorato agli Studi e realizzando insieme ai Lyons club, un vasto programma di conferenze in tutte le scuole medie e secondarie della provincia.

Un prete che ha lavorato molto a Rieti e per la città, don Luigi Bardotti, parroco di santa Lucia nel cui territorio Enzo ed Anna Maria abitavano, capì che il dr. Tarani poteva essergli utile per il recupero di quell’importante monumento medievale che è la Chiesa di San Domenico, così che lo coinvolse in un programma complesso, ma che ebbe un esito felicissimo, che vide il medico alla testa del comitato per la ricostruzione e il restauro di un’opera assai importante per l’umbilicus, quale testimonianza della nobile storia dell’antica città. Il coinvolgimento si estese poi anche all’ambizioso progetto di costruzione dell’organo Dom Bedos, conclusosi positivamente anch’esso. I lavori e l’altro che seguì, comportarono impegni prima per miliardi di lire e poi per milioni di euro. Non uno scherzo, dunque!

I Tarani erano belli d’aspetto. Giggetto, il padre di Enzo e di Vittorio, aveva una voce tenorile. Incantava le giovani del suo tempo nelle serenate passate al chiar di luna e quando, lavorando sulle impalcature delle case in costruzione, cantava, lui pittore edile, le romanze liriche del Flavio, sfoderando la sua voce che si riconosceva per finezza e grazia: “E lucevan le stelle, – si sentiva venir su dai cantieri – ed olezzava la terra, stridea l’uscio dell’orto. E un passo sfiorava la rena…. L’ora è fuggita, e muoio disperato! e muoio disperato !”.

Certo, c’è una folla di ricordi che premono: l’amicizia di Enzo e Anna Maria con Loris Scopigno e Mirella, con Carla e Claudio Dell’Uomo d’Arme e con Elena e Fiorino Cunese, altro medico ginecologo di grande valore. E la non dimenticanza dell’ultima parte della sua vita, trascorsa, bisogna dirlo, rimettendosi sempre alla volontà del suo Dio, che pregava aiutato da don Luigi, il prete amico del miracolo “san Domenico e Dom Bedos”, malgrado le sofferenze fisiche che non mancarono.

Ma i Tarani – è possibile dire – neanche per il futuro abbandoneranno il campo medico, malgrado Enzo, stanotte, abbia riposto per sempre il suo stetoscopio. Lascia un figlio, anch’esso di valore, Luigi, che porta il nome del nonno, professore in pediatria presso l’Università di Roma dal 1989. Ricordo che di sera, tanti anni fa, ai nostri giorni giovani, quando aveva tempo, Enzo correva al Palazzetto dello Sport per vederlo giocare al basket, orgoglioso di lui. Giggi era un buon play. Un bel figlio. Insomma un Tarani formato ottimamente, capelli brizzolati in anticipo e quindi charmant, alto, avendo superato di gran lunga tutti i Checcherellà e i Diéce che a far “bollette” non riuscirono mai a oltrepassare neanche la media della statura degli uomini di allora. Erano gli anni in cui la medicina e la pediatria, ahimè, languivano non poco. Ma che gli eredi di quei poveri clan, Enzo e il giovane Giggi, studiarono a lungo e poi seppero bene applicare, sfruttando un carisma ignoto a quei sanfrancescani che trascorsero la vita rintanati nelle botteghe umide dei vicoli a battere il ferro, i più deceduti per una malattia strana, che tutti chiamavano pormonèa e che loro, Enzo e Giggi, avrebbero saputo curare.