Questa “missione” non s’ha da fare

In sospeso il reality “The mission” della Rai, ambientato in un campo profughi

L’ultimo comunicato stampa ufficiale della Rai, datato 8 agosto, parla di “work in progress”, lasciando intendere che la trasmissione comunque si farà e andrà regolarmente in onda in prima serata, come annunciato nel corso della presentazione dei nuovi palinsesti prima della pausa estiva. L’obiettivo sarebbe quello di “portare all’attenzione del grande pubblico l’importanza delle missioni umanitarie” attraverso il racconto di un gruppo di vip che vivranno all’interno dei campi di accoglienza dei profughi.

Ma l’operazione non convince: l’idea di ambientare un reality show in mezzo alla disperazione di chi è dovuto scappare da una guerra, con tanto di telecamere e riflettori sempre accesi sulla disperazione dei malcapitati e sui volti dei protagonisti in cerca di visibilità, sembra orientata più al sensazionalismo che alla solidarietà. Il genere è improprio, dato che per definizione il reality attinge a situazioni reali per farne spettacolo. I profughi e i disperati non chiedono questo, né l’attenzione all’altro si sviluppa mettendo quest’ultimo sotto il fascio impietoso dei riflettori.

I nomi dei concorrenti confermano i sospetti più negativi: a quanto pare, i prescelti per vivere dieci giorni in un campo profughi del Sudan o del Congo sarebbero personaggi come Al Bano, Michele Cucuzza, Barbara De Rossi, Paola Barale, Emanuele Filiberto di Savoia. Con rispetto parlando, cosa c’entrano cantanti, attori, presentatori e rampolli benestanti con la drammatica sofferenza di chi è rimasto senza patria e, spesso, senza affetti?

Dopo l’annuncio della messa in onda prevista per novembre, non poche sono state le prese di posizione contro la probabile strumentalizzazione del dolore e della disgrazia che farebbe da sfondo a “The mission”, accompagnate da dichiarazioni anche istituzionali, tra cui quella del presidente della Camera Laura Boldrini – donna di lunga esperienza nelle missioni umanitarie internazionali per conto dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati – che ha espresso dubbi e critiche sul progetto.

L’idea di coinvolgere testimonial credibili per sostenere una causa umanitaria non è sbagliata in sé, ma in questo caso la partita si gioca su tutt’altro piano. Questo reality finirebbe per giovare solo all’audience e all’immagine pubblica un po’ appannata di chi ha bisogno di riconquistare posizioni nella classifica della popolarità, magari per vendere meglio il prossimo disco o per richiamare più larghe fette di pubblico sulla prossima trasmissione che presenterà.

Il dolore altrui impone attenzione, silenzio e rispetto, non certo spettacolarizzazione. Il bene va fatto bene, senza cercare in cambio attestati di merito o patenti di bontà. Abituati al potere dell’immagine, noi spettatori – proprio in quanto tali – da tempo non ci accontentiamo più delle cronache della sofferenza altrui e per mobilitarci abbiamo bisogno di vedere per credere che serva il nostro aiuto a chi si trova in situazioni di difficoltà e da tempo. Posto questo dato (non esente, in sé, da un pizzico di cinismo), c’è modo e modo di raccontare la tragedia anche per immagini.

Se davvero la Rai, coerentemente con il proprio mandato di servizio pubblico, vuole aprire spazi di conoscenza delle situazioni più drammatiche nel mondo per incentivare la solidarietà internazionale, le vie per farlo sono altre. La tv di Stato può contare su una nutrita schiera di bravi giornalisti e professionisti competenti per proporre in prima serata reportage e servizi informativi approfonditi, esaustivi e “mobilitanti” senza dover ricorrere a spettacolarizzazioni di sorta che non solo sarebbero eticamente discutibili, ma rischierebbero anche di ottenere addirittura l’effetto opposto, anestetizzando le nostre coscienze.