Meglio la disoccupazione

Il lavoro rimane il tema centrale dei nostri giorni. Anche se non riesce a trovare l’attenzione che i media giustamente dedicano agli esuberi Fincantieri, il comparto produttivo locale rimane apertamente asfittico se non in piena recessione. Il precariato, condizione sine qua non per i più giovani, sta diventando l’orizzonte comune di una gran parte della popolazione attiva.

Quello di Fincantieri è solo l’ultimo caso della lunga serie di crisi che investe il mondo del lavoro. Anche a casa nostra non mancano però esempi di una difficoltà diffusa e opprimente. L’insolubilità del caso Ritel, l’incomprensibile stato della Comifar e tante altre situazioni, ci parlano della grande difficoltà in cui si trova chi ha avuto la fortuna di trovare un lavoro “stabilizzato”.

Per gli altri è anche peggio: soprattutto per i più giovani (ma non solo). La maggior parte si trova a dover fare i conti con prospettive occupazionali deludenti, con rapporti lavorativi poco chiari e con tentativi di aggirare le poche direttive che ancora dovrebbero regolarli.

In ogni caso il risultato è la precarizzazione della vita. Oggi, in forme e modi diversi, più o meno tutti i lavoratori sentono di camminare su un terreno poco sicuro, friabile. Ciò li porta a restare immobili, ad accontentarsi per paura di un qualche smottamento.

La domanda giusta da farsi allora è: ma cosa hanno, anzi, cosa abbiamo da perdere?

Quando il reddito da lavoro è ridotto al minimo per la sussistenza, quando le prospettive sono chiuse, quando agli sforzi che si fanno non corrispondono le condizioni che rendono degna la vita lavorativa, non è meglio scegliere la disoccupazione?

Sì, lo so anch’io che ci sono le bollette, i mutui, l’affitto e le rate. Ma è anche vero che lo stile di vita che teniamo è eccessivo, pieno di cose inutili e costose. Ci tiriamo dietro tanta zavorra. C’è qualcuno che dice che siamo un paese ricco perché spendiamo 10 miliardi di euro all’anno in cosmetici. Ecco, se questa è la ricchezza che dobbiamo produrre rinunciando ai più basilari presupposti del lavoro, per permettere al mercato di “tirare”, per far sì che “l’economia giri”, per far “crescere il PIL”, forse vale la pena di scegliere una strada diversa. Non si tratta di cercare un pauperismo fine a se stesso. La disoccupazione volontaria può essere l’occasione per una trasmutazione di valori, o almeno per riaffermare quei valori che la precarietà del lavoro nega.

Una disoccupazione responsabile può rappresentare il tentativo di una vita diversa dal sistema del consumismo e dell’edonismo oggi in crisi. Frugalità, sostenibilità, autoproduzione, mutuo aiuto, dignità nel servizio gratuito, rendono meritevoli tante persone di essere sostenute. Lo sono certamente di più dei tanti che lavorano, che hanno un reddito, ma che magari svolgono mansioni inutili, vilmente burocratiche, o legate alla produzione di cose che, quando si va a stringere, non servono o sono dannose.

La nostra società è attraversata da un’ansia per la disoccupazione che può essere giustificata solo con anni di propaganda. L’idea di una occupazione piena è irreale, ideologica e pilotata.

La dignità del lavoro non sta nel posto di lavoro, ma nella sua capacità di dare forma e sostanza alla vita delle persone. Se ci si libera dell’ansia artificialmente indotta dalla società, non ci si sente più inutili perché privi di una occupazione infelice e squalificata.

Ci si può scoprire capaci di smantellare il sistema che ci ha portati a questo punto. La disoccupazione volontaria e consapevole può scoprirsi azione sovversiva, minare alle radici la generale filosofia che si è frapposta tra l’uomo e il lavoro. Prima ancora dello stipendio per pagare l’affitto, siamo spinti dal bisogno di avere un ruolo nella società produttiva, quale che sia. Sensa di esso crediamo di andare incontro alla disgregazione. Perdiamo sicurezza in noi stessi.

Prendiamo la crisi attuale come occasione per una completa revisione della nostra percezione del lavoro, del posto di lavoro e del loro ruolo sociale.

Il disoccupato finora si è nascosto. Oppresso dalla propria vergogna e dal proprio senso di colpa ha preso per vero che «se non trovi lavoro è perché non lo cerchi abbastanza». Ma ai precari sui tetti e agli operai che occupano le fabbriche per protesta allora, cosa bisognerebbe dire? Che «chi lavora Dio l’adora»?

Lo so che è un discorso scivoloso e complicato. Lo so anch’io che ci vuole rispetto per chi non ce la fa ad arrivare a fine mese. Ma tenuto fermo questo, viene da chiedersi se sia sensato ed opportuno abbandonarsi alla disperazione anche quando è chiaro che “non c’è più trippa per gatti”. Data la tendenza attuale, la globalizzazione, la crisi, ecc., non avere lavoro sarà sempre più la norma, ed averlo l’eccezione.

Ma allora che vale rischiare la propria salute mentale e fisica per un posto precario o sottopagato? Perché disperarsi per averlo perso? In questo contesto, chi davvero è una risorsa utile non può più cedere al falso buon senso dell’«intanto lavoro». Se il suo lavoro serve davvero, è giusto che riceva un compenso adeguato. Diversamente sarà meglio che cominci a dedicarsi alla cucina, all’orto, alla cura della casa, dei bambini e degli anziani. Tutte cose che fanno risparmiare soldi alle famiglie, alleggeriscono il welfare e restituiscono alla vita la sua utilità e la sua dignità.