Coronavirus

Mascherine, regole e tracciamento. Perché l’Italia sta meglio degli altri

Da “cenerentola” d’Europa, colpita al cuore prima e peggio dall’epidemia di coronavirus, a Paese con meno casi: ecco come l’Italia sta combattendo il Covid sul campo, dal Piemonte alla Campania

Non vuole «vanificare i sacrifici degli italiani», il ministro della Salute Roberto Speranza, e la scelta prudente della quarantena per chi arriverà quest’estate dai Paesi extra-Schengen, se non ha accontentato gli operatori turistici, senz’altro ha messo d’accordo la comunità scientifica e il mondo della sanità. Che ha pagato a caro prezzo i ritardi nella chiusura del Paese e che in queste settimane ha finalmente ripreso il controllo della situazione da Nord a Sud. Già, perché se c’è una certezza – in mancanza di quella decisiva sull’effettiva mutazione genetica del virus, a dire il vero smentita da quel che sta accadendo nel resto del mondo – è che l’Italia lentamente, silenziosamente, sta guarendo.

I focolai, certo, tengono viva l’attenzione di tutti sul Covid: ogni gior- no grappoli di casi, per lo più asintomatici, vengono registrati in qualche regione – quello di Mondragone e di Bologna, i più discussi, hanno ancora rilevanti strascichi – «ma che la situazione sia buona, forse tra le migliori a livello internazionale, è ora davvero indiscutibile». Da Torino il professor Giovanni Di Perri, direttore della struttura di Malattie infettive dell’ospedale Amedeo di Savoia e uomo chiave nella gestione dell’epidemia da coronavirus per la Regione Piemonte, è ottimista. Qui, in uno dei territori più colpiti assieme alla Lombardia, un mese fa esatto i casi giornalieri registrati ammontavano a 182, cioè il totale nazionale di ieri.

Due mesi fa a quasi il doppio, 314. Ieri la conta s’è fermata a 16: «È evidente che per trovarci oggi in questa situazione, e mi riferisco all’intero Paese, qualcosa, anzi molte cose hanno funzionato». Basta dare un occhio ai bilanci d’Oltralpe: la Germania ormai da giorni sfiora i 500 casi al giorno, la Francia ieri si è avvicinata alla soglia preoccupante dei mille (918 per l’esattezza). Ma cosa sta funzionando, da noi, cenerentola d’Europa fino ad appena due mesi fa? Lo sguardo deve innanzitutto tornare al lockdown: «Non possiamo prescindere dall’importanza che quella scelta durissima, e rigorosa, applicata a tutta l’Italia, abbia di fatto scongiurato la diffusione del virus nelle regioni meno colpite» continua Di Perri. Se cioè al Nord, dove di fatto si è poi scoperto che l’epidemia circolava da molto prima della scoperta del “paziente 1”, la situazione era ormai sfuggita da ogni possibile controllo, s’è messo in sicurezza il resto dello Stivale. «Col risultato che una volta (lentamente) curato anche il Nord, il Covid di fatto ha segnato una battuta di arresto ovunque». Senza casi di ritorno da altrove, e nemmeno di andata per ora. Sul “bottino” del lockdownconcorda anche Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario del-l’Irccs Galeazzi di Milano, supervisore del Pio albergo Trivulzio e membro del Comitato tecnico-scientifico della Regione Lombardia: «Abbiamo agito bene allora, oggi raccogliamo i frutti delle scelte fatte. E anche del comportamento degli italiani».

Che è l’altro nodo della questione: delle tanto discusse mascherine, in queste ore dimenticate sulle spiagge d’Italia («ma non possiamo pretendere così tanto e non sarebbe nemmeno giusto » sottolinea Pregliasco), gli italiani hanno fatto e fanno uso, soprattutto nei luoghi chiusi «e soprattutto – sottolinea ancora Di Perri – quegli italiani che sono più a rischio, cioè gli anziani. In questa fascia di popolazione il rispetto delle regole è molto più sentito, come naturale che sia, e questo sta contribuendo da un lato al calo dell’età della popolazione colpita, dall’altro ai sintomi lievi o quasi nulli dei nuovi contagiati». I numeri, anche qui, parlano chiaro: sui 15.255 malati attuali di Covid, in Italia, poco più di mille risultano ricoverati (di cui 87 in terapia intensiva).

Gli altri sono a casa. Ancora, e il punto è quello decisivo, in Italia sta funzionando il contact tracing, quella mappatura dei contatti cioè che ha “salvato” il Veneto (per intuizione del virologo Andrea Crisanti) e che nelle ultime settimane è stata organizzata in maniera più o meno massiva anche nelle altre regioni: «Diciamo che nel girone di ritorno della Fase 2 abbiamo seguito l’esempio veneto dell’andata – ammette con una battuta Di Perri –. Oggi, per ognuno di quei 16 casi riscontrati, noi partiamo tempestivamente con indagini ». Le squadre di operatori specializzati – chi dirottato dagli uffici di Igiene pubblica, chi reclutato appositamente tra neolaureati e specializzandi – si attivano cioè testando nel più breve tempo possibile (24/48 ore) tutti i contatti stretti dei nuovi contagiati. «È una tecnica aggressiva, ed è questo il momento di adottarla. In questo modo, per esempio, abbiamo subito contenuto i piccoli focolai che nei giorni scorsi avevamo riscontrato in un paio di Rsa tra Alessandria e Cuneo ». E lo stesso è stato fatto a Roma, alla Bartolini di Bologna, a Mondragone, a Fiumicino: «Si tiene a bada il virus, che se può mordere fa ancora male» conferma Pregliasco. Più in concreto ancora: si tengono al livello più basso possibile i contagi (che necessariamente continueremo ad avere fino alla scoperta di un vaccino), tenendo invece al livello più alto possibile le aperture. La traduzione del “rischio calcolato” sintetizzata dal premier Conte alla fine del lockdown, la cui prova del nove l’Italia affronterà da settembre in avanti.

da avvenire.it