Cinema

Mamma ancora e sempre da Oscar: arte, amore e Sophia

Parla il regista Edoardo Ponti che ha diretto la madre, data in pole alle nomination, ne “La vita davanti a sé”: «Sul set mi hanno emozionato la sua forza e la sintonia con il ragazzo protagonista»

La prima volta che ha lavorato con sua madre, la grande Sophia Loren, Edoardo Ponti aveva solo 11 anni. Era il 1984 e il ragazzino interpretava il ruolo di Ciro in Qualcosa di biondo diretto da Maurizio Ponzi. Poi il giovane cineasta, nel frattempo, si era laureato in letteratura inglese e scrittura creativa alla University of Southern California conseguendo poi un master in regia e produzione cinematografica. È del 1995 il debutto in teatro con La lezione di Eugène Ionesco seguito dalla trilogia Griffin & Sabine di Nick Bantock, che era stato l’assistente personale di Michelangelo Antonioni e che nel 1998 aveva debuttato alla regia con il cortometraggio Liv. Il primo film di Edoardo Ponti è del 2002, Cuori estranei, che nel cast vede Sophia accanto a Mira Sorvino, Deborah Kara Unger e Malcolm McDowell. Sua madre è la protagonista anche del successivo, lo struggente La voce umana, che quest’anno Pedro Almodovar ha rifatto con Tilda Swinton, ed è sempre Edoardo a riportare oggi sullo schermo la Loren con La vita davanti a sé, prodotto da Palomar e in esclusiva su Netflix dal 13 novembre.

Una interpretazione che proietta la 86enne Sophia in pole position come migliore attrice nella corsa agli Oscar 2021, spostati dal 21 febbraio al 25 aprile, con le nomination annunciate per il 15 marzo. Oscar che manca dalla bacheca della Loren da quasi sessant’anni, da quando lo vinse per La ciociaranel 1962. Tre anni dopo ebbe la nomination per Matrimonio all’italianae se dovesse ottenerla anche ora batterebbe il record di Henry Fonda per il divario più lungo tra prima e ultima nomination: 41 anni da Furore e l’Oscar nel 1982 per Sul lago dorato. Ponti, che ha firmato anche la sceneggiatura con Ugo Chiti, ha adattato l’omonimo romanzo di Romain Gary che racconta di Madame Rosa, superstite dell’Olocausto, che si prende cura dei figli delle prostitute nel suo modesto appartamento a Bari. Un giorno accoglie anche Momo, dodicenne senegalese che l’ha derubata, e insieme affronteranno le loro solitudini, dando vita a un’insolita famiglia. Accanto alla Loren ci sono Ibrahima Gueye, Renato Carpentieri e Massimiliano Rossi. Ponti ci ha raccontato il nuovo lavoro con sua madre, alle prese con alcuni dei temi che gli stanno più a cuore.

Di cosa le ha parlato il libro di Gary?

Il romanzo, che mi aveva già sedotto vent’anni fa, è una bellissima storia d’amore e d’amicizia e mi ha dato l’opportunità di mettere insieme due personaggi e due attori provenienti da angoli opposti del mondo. Mi colpisce co- me il libro affronta il tema della famiglia, che va ben oltre i legami di sangue, e quello della tolleranza.

La città di Bari diventa come il quartiere parigino di Belleville.

Cercavo un posto che fosse un pastiche di culture, volti, colori, energie e Bari mi sembrava il luogo più adatto alla nostra storia.

Si emoziona ancora a dirigere sua madre? La grande disciplina professionale di Sophia è nota.

Sì, continuo ad emozionarmi sul set con lei, tra noi ci sono sempre stati grande rispetto e sintonia creativa. E bisogna considerare che lavoro sia con mia madre che con Sophia Loren, un’artista che alla sua età ha ancora voglia di mettersi in gioco e rischiare. Sono colpito da quello che ogni giorno dava al film, dalla sua forza e dalla sua tenacia. Negli anni non è cambiato nulla: è sempre la prima ad arrivare sul set, impara perfettamente a memoria le sue battute, è preparatissima, sa sempre cosa deve fare e, soprattutto, si accosta a ogni nuovo film come se fosse il primo e l’unico della sua vita, con ansia e spontaneità. Ma non riesco a trovare davvero le parole per farvi capire quello che ci lega, ogni volta che ci provo mi commuovo.

Sophia ha recitato al fianco di ragazzini che non avevano la più pallida idea di chi lei sia e che quindi non hanno subito il fascino di una icona.

E questo era un grande vantaggio. Era importante però che tra mia madre e Ibrahima si creasse un legame forte e per questo durante la lavorazione del film abbiamo vissuto tutti nella stessa villa, per creare tra noi un rapporto di complicità che andasse oltre il set.

Come ha trovato il giovanissimo protagonista?

Ho fatto provini ad almeno 350 ragazzi e Ibrahima è stato il primo che ho incontrato. Cercavo una persona che avesse non solo la durezza e l’irriverenza di un bambino di strada, ma anche la profondità, il cuore, l’anima, che emergono nella seconda parte del film. L’ho subito notato perché nel provino doveva entrare in una stanza e fare la sua scena, ma la porta si è bloccata. Qualunque altro bambino si sarebbe fermato e avrebbe ricominciato, invece Ibrahima ha utilizzato nella scena questo piccolo contrattempo perché già possedeva gli strumenti adatti a essere un attore. È stata una scoperta continua lavorare con lui che non sapeva neppure che fossi il figlio di Sophia. Quando lo ha scoperto si è sentito un po’ mio fratello e mi ha promesso che si sarebbe impegnato moltissimo.

Rispetto al romanzo, il film asciuga le sottotrame e va dritto all’essenziale del rapporto tra Momo e Madame Rosa.

Quando si adatta un romanzo bisogna arrivare all’anima del libro per dare spazio e ossigeno ai momenti di profonda umanità tra i personaggi. Se sei impegnato a raccontare troppi fatti, quei momenti si perdono.

Alcune scene del film sono ambientate in un angolo della memoria dove ritrovare antichi dolori.

Un luogo reale, ma anche dell’anima e del cuore, un posto segreto dove emerge la consapevolezza di esistere come essere umano nel contesto di grandi tragedie, ma dove si fa strada anche un raggio di speranza, la voglia di rinascita. Quel luogo è l’inizio e la fine di qualcosa. Una delle scene emotivamente più intense però è stata quella girata sulla terrazza, un omaggio al film interpretato da mia madre che preferisco, Una giornata particolare.

Nel film gli sguardi raccontano più di tante parole. Cosa la commuove nella vita?

Mi commuovo moltissimo, almeno tre volte al giorno. Ma non è la tristezza a emozionarmi, bensì l’autenticità di un sorriso, di uno sguardo, di una parola.

Sui titoli di coda ascoltiamo un brano, Io sì, cantato da Laura Pausini.

Quando ci è stata proposta questa canzone da Diane Warren cercavamo un’interprete con radici italiane ma con una voce internazionale. E Laura aveva il temperamento e il cuore giusto per questo brano.

Cosa vorrebbe che il pubblico portasse con sé del film?

L’ultima frase del libro di Gary è «bisogna amare». Nonostante tutto, alla fine, bisogna amare.

da avvenire.it