La malagiustizia dello sventurato Paese

Qualche giorno fa mi giunge una pec dalla corte d’appello di Roma. La sezione è quella civile. Oramai a noi avvocati tutti i provvedimenti del giudice vengono notificati in questo modo. Leggo distrattamente, e a malapena riconosco le parti ed, in particolare, il cliente. Si tratta di un appello ad una sentenza del tribunale civile di Tivoli: la classica causa che riguarda diritti reali, usucapione e quant’altro. Vicende che possono apparire sciocche o non meritevoli ai più: ma che per molti – soprattutto quando ci sono di mezzo i propri genitori, nonni e parenti e la loro memoria e volontà – assumono un significato che va ben al di là del semplice caso giuridico. Questioni che noi avvocati, che incontriamo la gente e quotidianamente ascoltiamo i loro problemi cercando il più possibile di risolverli, conosciamo bene; che cerchiamo spesso di sminuire, smorzare, sfrondare dalla patina di affettività e, a volte astio o addirittura rancore, di cui sono ammantate queste storie.

Faccio fatica a rammentare, ma poi leggo meglio: l’appello risale all’aprile del 2009. Discussa la classica, prima udienza assolutamente interlocutoria (di smistamento, si direbbe nelle aule penali) già spostata al 13.01 del 2010, il rinvio è di quelli che fanno tremare le vene: 29 ottobre 2014. Esattamente 4 anni e dieci mesi. Un’enormità, dinanzi ad una richiesta di giustizia che, comunque, il cittadino paga, visto che il processo civile – come si dice in gergo – è ad istanza di parte.

Ebbene, sei giorni prima dell’udienza in cui la corte darà alle parti i termini per gli atti conclusivi, per poi decidere l’appello, arriva la fatidica Pec. Recita così: Oggetto: rinvio d’ufficio. Leggo la data è scorgo quella del 23 novembre. Tiro un sospiro di sollievo. In fondo solo un mesetto o poco meno di slittamento, mi dico soddisfatto. C’è tempo per avvertire i clienti.

Quando, qualche giorno dopo, mi accingo a scrivere la rituale comunicazione agli stessi, finalmente leggo ciò che forse, inconsciamente, mi era sfuggito, ed ovvero l’anno di rinvio. No, non riesco a credere ai miei occhi. 2016! Si: duemilasedici. La causa è stata rinviata all’udienza del 23 novembre 2016. Altri due anni da aspettare.

E’ a quel punto che mi vengono in mente parole, termini, promesse usate anzi, abusate, da tutti coloro che in questi 22 anni (da tanto pratico i tribunali) si sono succeduti lassù, nei luoghi del potere: Il giusto processo; La certezza del diritto e della pena; La legge è uguale per tutti.

Poi, via via, rammento le infinite riforme o mini novelle (decine e decine) che nel corso degli anni si sono inseguite nel vano tentativo (poiché palliativo e non risolutivo) di risolvere l’annoso problema della durata dei processi civili. Dalla riforma del processo, introdotta nel 95, alle ultime “norme – tampone” (io le definisco norme – diga o norme – muro di gomma) che hanno finito per distruggere questo processo. Che hanno reso la giustizia civile un lusso per ricchi. Che hanno praticamente “messo in mobilità” migliaia e migliaia di giovani avvocati, senza risolvere (vedasi rinvio citato) nessuno dei problemi per cui erano state varate.

Incapaci (o forse senza nessuna intenzione) di mettere le mani laddove andrebbero messe, tutti i nostri politici, nessuno escluso, hanno eretto barricate, dighe, muraglioni – tutte rigorosamente di tenore esclusivamente economico – per scoraggiare, fiaccare, deprimere, demoralizzare solo e soltanto la domanda di giustizia del cittadino. E lo hanno fatto cogliendo i classici “due piccioni con una fava”: da un lato riscuotendo imponenti introiti a fronte dell’aumento abnorme e smisurato (oramai con cadenza semestrale) di contributi unificati, tasse, imposte, marche bolli e quant’altro; dall’altro consentendo oramai solo ad un’elite di super abbienti di esercitare l’azione civile, praticamente insostenibile, oramai, dal ceto medio in giù.

Ci pensò prima Berlusconi a rendere più che rischiose le azioni in materia di lavoro, previdenza ed assistenza – prima tutte gratuite – imponendo adempimenti burocratici infiniti per avere esenzioni e quant’altro. Poi lo stesso accadde per i ricorsi contro le contravvenzioni. Poi la marea montante si rivolse contro il processo civile, sommergendolo. L’introduzione del contributo unificato, riconosciuto dalla stessa UE come illegittimo poiché indeterminato (e spesso abnorme) rispetto all’effettiva attività svolta. Poi il raddoppio del contributo in appello. L’aumento del 100% in cassazione. Il nuovo contributo a carico di chi, in risposta alla domanda avversaria, ne introduca una nuova (la c.d. domanda riconvenzionale). E poi il vaglio di ammissibilità in appello.

Ed infine, la chicca assoluta, la famigerata media-conciliazione obbligatoria. Uno strumento essenziale (ma non obbligatorio) nei paesi dove la giustizia funziona. Un ennesimo balzello che rallenta soltanto i tempi di accesso alla giustizia ed aumenta le spese, nella sua versione “all’italiana”. Prima introdotta. Poi dichiarata incostituzionale. Poi rimessa in versione soft – edulcorata. Ma il risultato è sempre lo stesso: conciliazioni riuscite, poche o nulla. Tempi: lunghi, ancor di più.

Penso allora al nostro martoriato, sventurato Paese. Alla sua strana, singolare forma di “democrazia”. Una democrazia in cui gli uomini votano senza sapere neanche il nome di chi li rappresenterà; in cui l’art. 1 della Costituzione oramai non ha più senso; in cui la giustizia è ormai appannaggio solo di pochi.

E poi, solo a noi rimane il dilemma: 23 novembre 2016. Come lo dirò al cliente?