Ma è l’essere provincia la cosa più importante?

Va bene riformare gli apparati dello Stato, ma le linee guida non si possono trovare nella rabbia e nel malcontento.

Da tempo si parla della sua rimozione. Sopravvissuta a più attacchi, la Provincia di Rieti, complice la permanente crisi economica e la necessità di ridurre il debito pubblico, si è trovata di nuovo in discussione.

È interessante rilevare la feroce alzata di scudi di tutti quelli che alla fonte della Provincia si dissetano. Meno coinvolti, per non dire indifferenti, i cittadini – o almeno così ci è parso. Probabilmente ancora hanno un po’ di buon senso: sentono che certi toni da catastrofe sono fuori luogo. Non torneremo certo all’età della pietra perché lo Stato tenta di razionalizzarsi, bene o male che faccia. Del resto in recessione ci siamo lo stesso, nonostante la Provincia sia al suo posto e lavori a pieno ritmo.

Qualche dubbio sensato semmai si deve far derivare dall’approssimazione con cui il Governo sta procedendo. Nessuno ad esempio sa ancora quale sarebbe il destino dei territori interessati dall’abolizione dell’ente. E così c’è chi ha parlato di accorpamento a Viterbo, a L’Aquila o a Terni, chi dell’opportunità di una macroprovincia Terni-L’Aquila-Rieti, chi di uno smembramento con un ritorno alle collocazioni pre-fasciste. Le strategie di salvezza, d’altra parte, pensano ad un improbabile raddoppio immediato dei residenti, tramite trucchi anagrafici, o alla inclusione della Sabina Romana, una operazione forse più ragionevole almeno sulla carta che nella realtà.

L’ipotesi più probabile è che per il momento le cose rimarranno come sono o cambieranno di poco. Dopo tutto l’operazione non è semplice, e anche se prima o poi un riordino del sistema-paese diverrà improrogabile, la strada intrapresa della legge costituzionale porta verso tempi poco prevedibili, anche se chi governa dice il contrario.

Intanto, presi come sono dall’incombere del problema, ci pare che i commentatori stiano tralasciando un tema di fondo. La vicenda dell’abolizione delle province ricade all’interno della più ampia discussione sui costi della politica. Un diffuso malcontento, per altro ampiamente giustificato, serpeggia tra i cittadini,  stanchi di tirare la cinghia mentre nei Palazzi c’è chi si concede laute gratifiche economiche e una miriade di agevolazioni.

La protesta è giusta, ma occorre essere attenti per evitare che prenda una piega pericolosa: la rabbia verso la mala amministrazione, sostenuta da un pensiero troppo semplificato, può arrivare a mettere in discussione gli strumenti della democrazia. Le ragioni di una riforma dello Stato non si possono trovare nella decadenza dei costumi dei politici. Per quella china si può arrivare a conclusioni affrettate, come dire, per assurdo: «siccome in Senato e alla Camera il tasso di assenteismo è altissimo, occorre eliminare il Parlamento».

Meglio non rischiare di perdere quegli strumenti che la Repubblica ha potuto darsi al costo di sangue, dolore e fatica. Riaverli indietro, dopo, non sarà affatto facile. Più che smantellare lo Stato, occorrerrebbe far emergere una classe dirigente decente e migliorare il complesso dei meccanismi attraverso cui si compie la scelta democratica. Diversamente si rischia di far cadere preziosi apparati di democrazia, senza ottenerne di migliori, solo perché abbiamo lasciato che fossero abitati da incapaci e approfittatori.