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L’oro sfruttato del Congo

Un progetto lanciato dalla Fondazione Magis punta ad analizzare la filiera dell’oro per evitare la violazione dei diritti umani o ambientali

Fedi nuziali, collane, orecchini. L’Italia è uno dei principali produttori di gioielli d’oro, che vengono esportati in mezzo pianeta. Ma da dove viene la materia prima? Quali percorsi ha fatto il metallo giallo prima di arrivare nei laboratori dei maestri orafi? L’Italia non produce oro, ma ne importa per un valore pari a più di 350 milioni di euro all’anno (dati Istat 2018), per poi esportarlo massicciamente sotto forma di manufatti di alta qualità.

L’oro viene principalmente dal Sudamerica e dall’Africa centrale e, nonostante alcuni meccanismi di certificazione che sono stati messi in piedi negli ultimi anni, è ancora difficile tracciarne l’origine e stabilire che le modalità con cui viene estratto rispondono al rispetto dei diritti umani e dei diritti ambientali. Particolarmente critica è la situazione nella Repubblica democratica del Congo (RDC), la cui parte orientale conserva vasti giacimenti auriferi, in larga parte sfruttati da un esercito di minatori artigianali.

Secondo stime presentate dal rapporto preparato dalla società Levin Source per l’agenzia statunitense di sviluppo internazionale (USaid), sarebbero almeno 200mila i minatori artigianali impiegati nell’estrazione nell’est del Congo. Intorno ai siti minerari, spesso controllati da miliziani in un’area a forte instabilità e soggetta da almeno vent’anni a scontri armati fra fazioni ribelli, si sviluppano veri e propri insediamenti informali, dove si raggruppano minatori spesso muniti solo di piccone e setaccio. Non è infrequente vedere in questi siti dei bambini.

Secondo una mappatura fatta dall’istituto di ricerca belga International Peace Information Service (Ipis), almeno un terzo dei siti di estrazione è caratterizzato da interferenza di gruppi armati, siano essi squadre ribelli o battaglioni dello stesso esercito regolare congolese. Questi uomini armati minacciano i lavoratori, sottraendo parte dei loro introiti e contribuendo a una clima di insicurezza e instabilità.

Ma che strade prende il metallo che viene estratto in modo informale? Oggi l’oro che viene trovato da questi cercatori viene acquistato da intermediari che lo trasportano per lo più illegalmente nei paesi vicini, l’Uganda, il Ruanda e il Burundi. Dopo una prima raffinazione in questi Paesi, il metallo sotto forma di “doré bar” (lega semi-pura) viene ri-esportato a Dubai o in Sudafrica, dove viene ulteriormente raffinato e trasformato in lingotti. E’ in quest’ultima forma che raggiunge i mercati di utilizzo finali, la Cina, l’India, gli Stati Uniti e l’Europa.

Il numero di anelli di intermediazione, i percorsi tortuosi seguiti dal metallo dall’estrazione alla raffinazione al consumo finale rendono complesso un processo di tracciabilità dell’oro, prima condizione per una certificazione che ne garantisca gli standard etici ed ambientali di estrazione.

Eppure, almeno per le importazioni verso l’Europa, la situazione è destinata a cambiare: con il regolamento 821 approvato nel 2017 gli importatori dell’Unione Europea di diversi minerali (stagno, tantalio, tungsteno e oro) saranno sottoposti a una serie di obblighi. Dal 1° Gennaio 2021, dovranno adempiere ai doveri di diligenza allo scopo di impedire che i profitti provenienti dal commercio dei minerali e dei metalli importati siano utilizzati per finanziare conflitti.

E’ in questo contesto che la Fondazione Magis, ente della provincia Euro-mediterranea della compagnia di Gesù, ha lanciato un progetto di ricerca e advocacy sulla filiera dell’oro, concentrato sui due anelli estremi: a valle presso i minatori artigianali in Congo, per cercare di capire quali sono le condizioni da soddisfare per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro; a monte presso i laboratori orafi italiani, particolarmente interessati a garantire ai loro clienti un oro di sicura provenienza, non macchiato nell’estrazione da violazione dei diritti umani o ambientali. La ricerca sul campo si propone di analizzare le principali criticità in modo da fornire strumenti di comprensione e azioni ai decisori politici, volti a migliorare le condizioni dei piccoli minatori – e a garantire agli acquirenti finali in Europa che l’oro delle loro fedi nuziali o gioielli non abbia alimentato conflitti o violazione dei diritti umani.

da avvenire.it