La libertà nel morire. Morire per condanna

Da una parte le decapitazioni decise dall’arbitrio prepotente di un altro uomo e la speranza di vivere annientata dall’ultimativo “tu morirai presto”. Dall’altra la rivendicazione di un teologo cattolico del diritto di scegliere da solo come e quando morire. Davvero tutto ruota attorno alla speranza, motore del credere.

Non ho guardato il video della decapitazione del secondo ostaggio. A dire il vero, nemmeno quello del primo. Non li vedrò, mi pare di mancare di rispetto ai morti e ai parenti che hanno smesso di aspettarli. Mi sembrerebbe non di onorare la loro morte, ma di farmi complice di un meccanismo perverso che mira a negare la dignità degli uomini nel momento in cui subiscono un supplizio atroce. Lo sanno bene i terroristi dell’Isis quando filmano una condanna a morte e la postano online perché diventi virale. Sanno che non c’è nulla che incuta più timore come le immagini dell’umiliazione e della rassegnazione impotente riflessa negli occhi di chi aspetta la morte e sa che sta per arrivare. Le parole che nutrono la paura sono macigni e pesano sul cuore, sulla mente, sulla speranza. Il califfato del terrore prima di uccidere fisicamente gli ostaggi annienta la fiducia e i pensieri con una frase piccola e velenosa: “Tu morirai, presto”. La pronuncia di condanna a un tempo indeterminato, ma vicino, fiacca e spegne ogni resistenza residua perché prende forma definitiva di un destino segnato e ineluttabile senza possibilità d’appello. Un fato che dipende non da un capriccio del caso o dal disegno del Cielo, ma dall’arbitrio prepotente di un altro uomo che sceglie chi potrà vivere e chi dovrà morire.

La vita e la morte sono un mistero e diventano paradosso quando le si interpreta con parametri diversi. Nella stessa giornata in cui si susseguivano le immagini e il raccapriccio collettivo per la fine del secondo giornalista tra le sabbie di un deserto anche morale, il teologo tedesco Hans Kung ha rivendicato il proprio insopprimibile diritto a scegliere da solo come e quando morire. Dimenticando, forse, come “teologo cattolico”, che la vita e la morte non ci appartengono, ma sono nelle mani di Dio. Solo la hybris di antica memoria ci vuol porre superiori al destino. Così superiori da affogare nell’autodeterminazione superba ed estrema di chi preferisce darsi la morte piuttosto che ammettere che il tempo del cammino non ci appartiene. Stride l’agghiacciante parallelismo della cronaca quotidiana che accosta la frustrazione di chi pretende di poter scegliere quando morire e l’afflizione di chi vorrebbe invece essere lasciato libero per vivere. Asimmetrica condizione tra chi subisce per mano altrui la morte e chi invece la reclama per sé come libera scelta.

Cos’è dunque la libertà? Può davvero essere intesa soltanto come poter scegliere quando e come morire? O scegliere chi far morire? Davvero il nostro essere liberi si concretizza con l’atto che cancella dal vivere e quindi dal poter esercitare la nostra libertà?

La verità ineluttabile è che tutti prima o dopo dobbiamo morire. È nel nostro limite di esseri umani, nella nostra finitezza di creature. E questo ci mette alla prova, durissima, del non sapere né dove né quando. Da credenti soccorre il confidare nella speranza, la stessa che il boia incappucciato toglie ai suoi prigionieri perché tolta la speranza resta solo la paura. Ecco, non sarà che forse chi vuole scegliere la propria morte, ha perso la speranza? E crede ormai solo in un dio feroce e molto “umano”? Una divinità vendicativa e spaventosa cui ribellarsi e da cui fuggire perché armato di un coltello e pronto a eseguire spietato la sua sentenza: tu morirai. Se è cosi, dispiace per chiunque lo pensi. Perché, come dice il poeta cantando della vita: “Colui che ti bestemmia aspetti un minuto, una notte, un anno breve o lungo, esca dalla sua solitudine bugiarda, indaghi e lotti, unisca le sue mani ad altre mani”. Perché coltivare la speranza e non lasciarsela rubare vuol dire credere.