L’Europa nella rete

Hai voglia a dire che dalla Finlandia al Portogallo siamo tutti europei. È vero, come sono vere certe barzellette in cui ci sono un tedesco, un francese, un polacco e un italiano.

Chi vuole sentire il polso della città, indagare sull’opinione pubblica, farsi un’idea di come le persone vedono il mondo, trova nei social network un grande alleato. Se non altro perché le piazze virtuali di Facebook o Twitter, rispetto alle piazze reali e ai bar, offrono il vantaggio della lettura. Verba volant, scripta manent recita la locuzione latina. E il cumolo di “scripta” delle agorà virtuali è quanto mai interessante. Tolti i pettegolezzi, nelle bacheche dei “cittadini impegnati” e dei gruppi di “consapevolezza civica” è facile rintracciare qualche grande tema.

Guardato tutto insieme, l’intreccio di pensieri, link, lamentele e storie che rimbalza di notifica in notifica sembra raccontare un sentimento di diffidenza, di scoramento, talvolta di disperazione. Un movimento che trova facile sfogo nell’invettiva contro le inadeguatezze degli amministratori locali, anche se questo non basta a placare lo scontento. Da diverso tempo, infatti, anche appoggiandosi ad una controinformazione eterogenea e non sempre ben verificata, sono in crescita discorsi contro l’Europa, la moneta unica ed i poteri sovranazionali in generale.

Al «ce lo chiede l’Europa» inteso come guida sicura per lo sviluppo e la giustizia, si è a poco a poco sostituita l’idea di una imposizione irragionevole. E una forte diffidenza verso le istituzioni di Bruxelles cresce in conseguenza. In tanti cominciano a chiedersi cosa muova i governanti europei, potenti quanto sconosciuti e spesso dotati di una legittimazione che di democratico conserva appena una vaga parvenza.

È una domanda che si fa avanti per necessità. Dopo aver goduto dei vantaggi che l’Unione e la moneta unica hanno portato nella vita di milioni di persone, in tanti cominciano a sperimentarne gli effetti collaterali. Finché si sono occupati della curvatura dei cetrioli o della lunghezza delle carote, gli euroburocrati ci hanno fatto sorridere, ci sono sembrati ridicoli e inoffensivi. Quando hanno fissato standard di sicurezza e tutela ambientale e livelli minimi di qualità nella produzione industriale ci sono addirittura sembrati utili e illuminati. Ma da quando i parametri progettati sui tavoli di Bruxelles hanno cominciato a toccare le saccocce degli Stati, certi loro debitucci e le pensioni, in tanti hanno smesso di divertirsi. A cominciare delle classi più deboli, che hanno sperimentato sulla carne viva uno smantellamento dello Stato Sociale inaspettato e per molti versi inaccettabile.

Non solo: il fiorire di istituzioni e procedure, nascoste dietro sigle incomprensibili e acronimi misteriosi (come ECHA, EEA, EFCA, ENISA, EMSA…) sta alimentando il sospetto anche di quanti ancora resistono ai rigori dell’austerità.

Qualcuno dirà che i difetti dell’Europa sono negli occhi di chi vede, che in troppi vorrebbero tutti vantaggi dell’Unione senza per questo doverne pagare il prezzo. È possibile, ma dev’esserci dell’altro. In fondo i sacrifici per entrare nell’Euro gli italiani li hanno fatti abbastanza volentieri. E non solo lo Stivale è tra i Paesi fondatori dell’Unione, ma i cittadini della penisola sono sempre stati piuttosto favorevoli al processo di integrazione.

Per capire lo scontento di oggi, allora, torniamo a spulciare Facebook. Tra i nostri concittadini beninformati circolano con un certo successo le tesi del complotto.  Non si finisce mai di contare le accuse verso la grande finanza, le banche e i poteri occulti. E da quando certe teorie e certi nomi si sentono circolare anche nei talk show televisivi, sembra tutto più credibile.

Magari c’è del vero, ma sembra tutto un po’ troppo semplice e consolatorio. Purtroppo la realtà è complessa, e forse stiamo semplicemente vivendo l’epoca in cui le contraddizioni accantonate per fare spazio al processo europeista non possono più essere nascoste.

Hai voglia a dire che dalla Finlandia al Portogallo siamo tutti europei. È vero, come sono vere certe barzellette in cui ci sono un tedesco, un francese, un polacco e un italiano. Allora viene il sospetto che la politica, spaventata dalla difficoltà di armonizzare le differenze tra le multiformi culture del continente, abbia risolto il problema affidandosi ad una tecnica rigida e omologante.

Come le barbabietole, i surgelati e i cavoletti, l’uomo europeo deve corrispondere a certi parametri. Il resto è da scartare. Eccola la resistenza alla prepotenza del capitalismo finanziario: ha tutta l’aria di essere un’autodifesa della varietà umana dalla standardizzazione, prima ancora che un problema economico.

Chissà se l’Europa coglierà mai l’invito fatto pochi giorni fa da Papa Francesco alla Chiesa cattolica, quello di essere «la “Casa dell’armonia” dove unità e diversità sanno coniugarsi insieme per essere ricchezza».