Lettera aperta ai preti

Fratello carissimo, la “nuova evangelizzazione” più che di nuovi metodi ha bisogno di pastori che abbiano profonda esperienza della fede, nutrita dal Vangelo. Vero discepolo del Signore è colui che sa ciò che dice il Maestro. Consapevole che il vescovo deve essere vicino ai sacerdoti – primi e preziosi collaboratori – con quell’amore paterno che sa sostenere, incoraggiare, correggere e perdonare, richiamo la tua attenzione sullo stile della vita ministeriale, osando proporre alcune domande un po’ impertinenti ma non irriverenti. “E perché non sembri offensivo per qualcuno quello che sto per dire – scrive san Gregorio Magno –, accuso nel medesimo tempo anche me”.

Che ne è della tua vita di preghiera? Qualora riservassi al silenzio della meditazione e dell’adorazione solo uno scampolo di tempo è il sintomo che non stai bene! Per approfondire la diagnosi, chiediti se adempi fedelmente la Liturgia delle ore, impegno che ti sei assunto davanti al popolo di Dio. Non oso chiederti se hai delegato alle “pie donne” la Recita del santo Rosario!

Fai gli esercizi spirituali tutti gli anni, come la sollecitudine materna della Chiesa domanda, oppure non ricordi nemmeno quando, dove e chi te li ha predicati l’ultima volta? Se cerchi di giustificarti dicendo che la vita pastorale non te lo permette non dici il falso ma nemmeno il vero. Se poi pensi di aver commutato gli esercizi con un pellegrinaggio o con un corso di aggiornamento pastorale ti sbagli, rischi di diventare “tiepido, né freddo né caldo” (cf. Ap 3,15-16).

Da quanto tempo non ti confessi? Questa domanda che sei solito fare ai penitenti hai dimenticato di rivolgerla anzitutto a te? Non sarà, forse, che la fuga ormai cronica dei fedeli dal confessionale ha trovato nei preti e nei religiosi dei precursori? Del resto, per essere buoni confessori è necessario rimanere umili penitenti, che si accostano assiduamente al sacramento della Riconciliazione e non si sentono dispensati a vita dalla direzione spirituale.

Quando sali all’altare, spesso trafelato perché corri da una parrocchia all’altra, credi fermamente di “astare coram Deo”? Sei cosciente che lo stare alla presenza del Signore deve essere sempre anche un prendersi cura del suo popolo? Quando celebri la Messa qual è l’intenzione che ti guida? Non intendo l’applicazione, che non ti autorizza a moltiplicare le Messe binate o trinate e plurintenzionali! Quale “servo premuroso del popolo di Dio” ti ricordi che sei tenuto a celebrare la Messa pro populo e che nulla ti vieta di farlo non solo la domenica?

Nell’avvicinarti all’ambone sei cosciente che devi credere sempre ciò che proclami e insegnare ciò che hai appreso nella fede, vivendo ciò che insegni? Quando tieni l’omelia, il tuo cuore di pastore suggerisce alla mente cosa dettare alle labbra? Lo Spirito santo non esiterà a sorprenderti, ma solo se lo avrai invocato nel silenzio della preghiera. Non ti accada di scaricare l’omelia da internet, a cui spesso rimani incollato, perché vorrebbe dire che non hai “cibo solido” da offrire ai fedeli!

Quali sono le riviste che segui, i libri che leggi e i giornali che sfogli? Quanto spazio riservi alla formazione permanente? Non rispondere frettolosamente, ma chiediti qual è l’ultimo convegno teologico-pastorale a cui hai partecipato e qual è il libro che hai letto di recente senza limitarti ad accarezzare il titolo e a sorvolare l’indice. Se fai fatica a rispondere, alla prima occasione osserva il volto delle persone quando parli; se non riesci a contare gli sbadigli, decodifica i loro sguardi, perché non abbiano a lasciare intendere: “Quello che devi dire, dillo presto!”.

Vivi la fraternità sacramentale riconoscendo nel presbiterio diocesano la “comunità dei discepoli” che sa “sopportarsi a vicenda nell’amore” (cf. Ef 4,2) e sa anche “gareggiare nello stimarsi a vicenda” (cf. Rm 12,10)? A quando risale l’ultima visita fatta ad un presbitero malato o anziano? Ti capita di esprimere qualche giudizio affrettato sui confratelli? Ti risparmio la stessa domanda sul vescovo! Puoi dire che i tuoi migliori amici li trovi tra i preti o li cerchi altrove, nel salotto delle solite abitazioni private che non assomigliano per niente alla casa di Betania?

Sei povero, cioè libero, o sei affetto dalla “cupidigia che è idolatria” (cf. Col 3,5)? Prova a dare uno sguardo al bilancio parrocchiale. I conti sono trasparenti, oppure ci sono dei vasi comunicanti? Come mai sono scomparse alcune voci relative a determinate collette? Non sarà, forse, che il fondo di garanzia della previdenza ha preso il posto della fiducia nella Provvidenza? E che ne è del tuo conto in banca? Oso farti questa domanda solo “toccata e fuga”, sperando che gli “zeri” della risposta lo consentano! Nel tuo bilancio personale esiste la voce della “decima” per i poveri? Ti sei ricordato di sigillare il testamento con un ultimo gesto d’amore per la Chiesa?

C’è infine un’altra questione: quella dell’abito. Ne è parte integrante il telefonino, diventato un idolo della raggiungibilità e della reperibilità. Eppure se ti chiamano i parrocchiani non sempre rispondi, sebbene il cellulare sia acceso anche in Chiesa, non certo per le chiamate di emergenza, per le quali è attivo il trasferimento alle pompe funebri. Quanto all’abito ecclesiastico – non intendo i paramenti, talora troppo ricercati o, al contrario, poco decorosi perché sporchi! – il campionario è variopinto. C’è chi è passato dalla talare al maglione e ai blue jeans; c’è chi porta il clergyman solo nelle grandi occasioni, ritenendo che in privato sia lecito mimetizzarsi, trovando giustificazione nel vecchio adagio, di taglia troppo stretta anche se di moda, “l’abito non fa il monaco”.

Queste domande formulate “a viso aperto”, oltre che un esplicito invito a compiere un serio esame di coscienza, sono un forte appello a fare tesoro di quanto raccomandava Giovanni Paolo II: “La testimonianza di un sacerdozio vissuto bene nobilita la Chiesa, suscita ammirazione nei fedeli, è fonte di benedizione per la comunità, è la migliore promozione vocazionale”.

Tratto da «L’Amico del Clero» del mese di movembre 2013