Te Deum

L’augurio del vescovo per il nuovo anno: «Saper costruire il futuro come hanno fatto i nostri nonni»

Una riflessione sul tempo: su come siamo schiacciati sul presente, sul passare delle generazioni, sul senso del limite. È quella che ha caratterizzato i vespri celebrati dal vescovo Domenico nella sera del 31 dicembre, in Cattedrale

Una riflessione sul tempo: su come siamo schiacciati sul presente, sul passare delle generazioni, sul senso del limite. È quella che ha caratterizzato i vespri celebrati dal vescovo Domenico nella sera del 31 dicembre, in Cattedrale. Un ritrovarsi con i fedeli per ringraziare il Signore dell’anno appena trascorso, nonostante il dolore e le difficoltà causati dalla pandemia. Anzi, è proprio innanzi a questo fenomeno ineludibile che mons Pompili ha voluto indicare l’eredità più preziosa dell’anno che si chiude: «al di là delle trasformazioni sociali ed economiche, culturali e perfino spirituali, sono tutti quelli che non sono più in mezzo a noi. Quelli, cioè, che se ne sono andati via, spesso in solitudine, senza possibilità di un ultimo abbraccio e di un’ultima parola».

«Soltanto nel Lazio parliamo di 3696 persone, molte delle quali ultrasettantacinquenni», ha notato il vescovo, sottolineando che si tratta delle generazioni cui dobbiamo tutto: «la prosperità, la pace, la fiducia. Sono genitori e nonni che con la loro forza, la loro fede semplice, hanno generato famiglie, lavoro e democrazia. Sono quelli che hanno trasformato le macerie della guerra per edificare qualcosa di nuovo e di duraturo».

Non si tratta dunque di un’eredità che a che fare con il denaro o i patrimoni immobiliari, ma con «la segreta ragione che ha animato la loro vita, riconducibile a questa persuasione: “La felicità più importante non è la nostra, ma quella dei figli”». Una proiezione in avanti che non solo spiega meglio di qualsiasi analisi economica o sociale il boom economico di ieri, ma anche la crisi di oggi. Perché nei figli e nei nipoti di quei padri e di quelle madri, di quelle nonne e di quei nonni si è bloccata la capacità di trasmettere: «La verità è che siamo affetti – chi più chi meno – da un virus che riduce ogni cosa all’attimo presente, privilegia come orizzonte temporale solo l’oggi, e soprattutto tende a “piangersi addosso” nel vittimismo. L’eredità da raccogliere, invece, è l’affezione dei nostri vecchi, i quali, conoscendo la vita come un passaggio breve, mollano la presa, facendo strada agli altri, senza farsi strada».

«A pensarci – ha aggiunto don Domenico – l’eredità più importante del 2020, non è solo la memoria grata verso i nostri benefattori, ma anche la percezione che la vita scorre in avanti e non è mai separata dalla morte. Il che non toglie nulla allo scandalo del morire, ma rende avvertiti che vita e morte sono abbracciate insieme. E questo basta per scalzare il mito del benessere a tutti i costi, della stabilità senza repentini cambiamenti di scenario e ricorrenti crisi di sistema».

«La vita e la morte insieme danno ad intendere che cosa sia l’avventura», ha concluso mons Pompili ribaltando le trovate di certa pubblicità in cui si vede una jeep nuova e fiammante: «l’avventura non è “fuoristrada”, ma nella strada della vita con le sue curve, le sue incognite, le sue sorprese». Ce lo ricorda il Natale di Gesù: «gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per ricominciare». Un aforisma di Hanna Arendt che suona come un augurio per l’anno nuovo: quello di provare a fare nel 2021 come hanno fatto i nostri genitori e i nostri nonni prima di noi.