L’arrivederci di Elisa al coro diocesano

La vita di un coro di amatori credenti è in realtà la vita dei cantori che, con generosità e passione, mettono le loro voci e segmenti anche cospicui delle loro giornate al servizio di una certa idea di liturgia e di canto. È il lato forse più bello e appagante di un’esperienza nella quale, per ovvi motivi, professionismo o retribuzioni adeguate non possono trovare cittadinanza. E proprio perché in fondo è la vita il motore di quell’impegno e di quello zelo, quando questa chiama ad altro bisogna rispondere e andare.

È quanto sta accadendo alla nostra Elisa, che un concorso dall’esito positivo porta via da Rieti (come tanti altri della sua generazione) e sottrae alla routine sempre uguale eppure sempre nuova della Schola Cantorum «Chiesa di Rieti». E nella serata del 15 maggio, al termine della consueta prova del lunedì, maestro e coristi si sono stretti attorno a lei e alla sua mamma – arrivate a San Nicola con un vettovagliamento commisurato alla fame di chi, fino a pochi minuti prima, si era cimentato con le stanze dell’inno Akathistos – per far festa alla vigilia della sua partenza per Parma, dove si formerà per sei mesi prima di prendere servizio. Ancora non è dato sapere quale sarà la sua destinazione. La nostra speranza, neanche troppo segreta, è che sia vicina a sufficienza da permetterle di riprendere il suo posto tra i soprani tutte le volte che potrà, con sotto braccio la cartella che improvvidamente aveva manifestato l’intenzione di riconsegnare.

Di Elisa, alla quale auguriamo ogni bene all’inizio di questo nuovo capitolo della sua vita, vogliamo tenere con noi due immagini: quella della salmista che vince le proprie emozioni e canta la Parola di Dio in diretta Rai oppure davanti a 100 sacerdoti, ma soprattutto quella di lei, grata e felicissima, intenta con gli altri cantori all’opus magnum dell’anno scorso, l’apprendimento di Sicut cervus. Mentre i decani del coro, Guglielmo e Giuliano, andavano come treni su quella splendida linea di basso (perché loro Palestrina lo cantavano da una vita) e magari sbuffavano ai comprensibili inciampi degli altri, rimembrando i tempi gloriosi e ormai lontani delle grandi messe pontificali di Perosi quasi gridate dalla cantoria della Cattedrale; mentre i tenori tutte le volte sudavano freddo a quell’attacco difficilissimo che, già alla e di cervus, era calato di svariati toni; mentre Luciana si dannava con le durate delle note dei contralti e, brandendo lo spartito sotto il naso di Tiziana, non si dava pace del fatto che lei Sicut cervus lo studiava da quasi vent’anni; mentre sul volto di Barbara, esausta a forza di sbracciarsi nel vano tentativo di accelerare l’esecuzione, si dipingeva la tensione di chi doveva dare tutti gli attacchi, persino quelli che anche per non professionisti come noi avrebbero forse dovuto essere superflui: ebbene, mentre tutto questo accadeva, Elisa, in genere seduta accanto a Daria e a Sabrina, era lì che imparava, recepiva, sosteneva con la sua bella voce, quasi travolta – lei giovanissima – dall’incontro con quell’autore tanto antico eppure così straordinariamente attuale perché, semplicemente, bello.

Se l’esperienza con la schola avrà consentito a Elisa di incontrare occasionalmente il bello e dunque, in definitiva, il divino, quei segmenti anche cospicui della sue giornate che, nell’ultimo anno e mezzo, ha regalato al coro avranno avuto una qualche forma di remunerazione. Da noi che restiamo un grazie, una speranza e un imperativo: il grazie, affettuoso e riconoscente, per averla avuta o, meglio, averla con noi; la speranza che si sia sentita accolta e che porti sempre con sé il ricordo dei momenti di amicizia e di condivisione vissuti insieme; l’imperativo, rivoltole direttamente da un corista maturo, di prendere lezioni di canto dovunque andrà e di continuare a coltivare una passione che, se costantemente alimentata, può riempire tutta la vita.

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