L’arca da riparare

Sul bivio di Collalto Sabino, per alcuni giorni, una figura come ombra salutava dolcemente, con uno sguardo triste, quasi cercasse di riconoscere dietro il vetro di qualche autovettura i tratti di una fiducia tradita. Sembrava una spugna gettata fuori, capace di assorbire le gocce della solitudine di chi si spacciava per amico.

Un semplice cagnolino, come tanti in questo periodo, trattato come la spazzatura scartata da quei signori che vengono in montagna per fumare sigarette, lasciare sacchi dell’immondizia, e spogliarsi la testa da sentimenti di poco conto: insomma, per inquinare l’ambiente.

A scuola ci portavano a pulire il parco: forse per questo do per scontato che non ci si butta nemmeno una parola sporca.

Quando parlo dei parchi e penso alle foreste, mi emerge dai ricordi suor Alana. Lavorava in sagrestia, in una delle chiese della mia città natale. Quando ero piccolo tornavamo spesso dopo la Messa, ed io ascoltavo volentieri i racconti di questa donna semplice.

Parlava della natura, del suo giardino, degli animali: gattini, cuccioli, uccellini. Non conosceva né greco, né latino; leggeva solo il breviario e, forse, lo leggeva piuttosto a memoria, e quindi qualcuno si chiedeva cosa ne capisse.

Ho visto come si fermava per ammirare un fiore che spuntava dal suolo, come lo curava se era calpestato. Quante volte abbiamo scoperto i segreti del parco, salvando un piccolo uccello caduto dal nido, o portando a casa un gattino spaventato, che ci guardava con gli occhi grandi, stupito, forse, che non gli si versasse benzina sul pelo o non gli si offrisse un bocconcino avvelenato come si usa oggi a Campoloniano.

Gli occhi di questa religiosa erano più ingenui che furbi, belli e puliti, proprio quelli che non sono più di moda.
È vero: quando i bambini possono solo sognare la merenda, perché spesso non basta nemmeno per il panino al pranzo alla fine del mese, parlare all’ora del caffè pomeridiano dei cani e gatti può sembrare strano. Ma le crisi nascono nel cuore freddo come un obitorio. E noi umani, chiamati da Dio a dare il nome a queste esistenze, in una cosa siamo vicini alla natura, assumiamo le azioni dei parassiti.

Chi non si affeziona della vita, e non solo di quella propria, comincia sempre così, da una sigaretta che non può sporcare il portacenere della macchina, o da una vacanza: quando gli animali fanno la fine dei fiori secchi.
Il passo è breve dal tradire un amico noioso, o dal liberarsi dal figlio che spaventa prima della nascita. Poi la moglie fa fine del pezzo di ricambio o della macchina meno lussuosa.

C’è qualcosa che unisce queste azioni. L’uomo megalomane, protagonista di se stesso, libero da tutto, emancipato dall’impegno che gli garantisce l’ultimo strappo della dignità, è capace di bruciare la terra sulla quale cammina per il piacere di sentirsi libero di farlo.

Come ci salviamo? In quella spaventosa alluvione dell’egocentrismo e dell’antropomania bisogna costruire un mezzo per salvare il salvabile. L’arca di Noè persiste nei cuori sensibili e ci ricorda tra tante cose, che c’è chi vuole salvare il mondo dalle conseguenze del peccato umano.

Voltare le spalle a Lui significa disprezzare il creato. L’ecologia senza Dio è una nave bucata, incapace di salvare qualcosa.