Coronavirus

L’Africa si prepara al coronavirus : timori e difficoltà

Cresce il numero dei contagi in Africa con oltre 300 casi. A preoccupare sono i Paesi con una situazione sanitaria precaria e c’è la paura anche da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che non ci siano le forze per affrontare questa nuova sfida. Intervista al direttore di Medici con l’Africa Cuamm

Dall’Europa all’Africa cresce la preoccupazione per il diffondersi del coronavirus. Paesi come Sudafrica, Senegal, Ghana, Etiopia, Kenia stanno provvedendo a contrastare la malattia che, negli ultimi giorni, si è diffusa in modo esponenziale. In sole 24 ore, venerdì scorso, i Paesi che registravano casi di coronavirus sono passati da 9 a 15. Le prime misure adottate riguardano la chiusura delle scuole per circa due settimane, l’annullamento di cerimonie pubbliche e di eventi sportivi ma si sta vagliando anche lo stop agli ingressi nei vari Paesi. Il Kenya ha già provveduto a bloccare i voli da e per l’Europa. Anche la Chiesa locale ha rinviato delle iniziative come la Giornata della Gioventù nell’arcidiocesi di Accra, in Ghana, prevista per il 27 e 28 marzo. Venerdì intanto in Costa D’Avorio è stata indetta una giornata di preghiera e digiuno.

Allarme dell’Oms

Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Ghebreyesus, ha confessato di temere l’esplosione dell’epidemia nei Paese africani dove i sistemi sanitari non sono all’altezza. Sono stati stanziati 15 milioni di dollari per i Paesi più a rischio. A fargli eco anche il responsabile regionale Oms per l’Africa, Matshidiso Moeti, che ha indicato l’urgenza di rafforzare le strutture di isolamento per i malati e di migliorare sul fronte della prevenzione. In Etiopia, ad esempio, hanno aumentato le corse pubbliche degli autobus per evitare assembramenti, saranno gratis. In Rwanda il governo ha collocato lavelli ovunque, soprattutto alle fermate degli autobus. In Uganda tutti i passeggeri che arrivano nel Paese, vengono sanificati con spray antibatterici.

L’Africa tra rischi e ricchezze

L’associazione Medici con l’Africa Cuamm, dal 1950 attiva nel continente, sta provvedendo per supportare il proprio personale medico ma anche quello locale in vista di un’emergenza. Don Dante Carraro è il direttore dell’associazione ed è da poco rientrato dal Sud-Sudan, uno dei Paesi africani più poveri.

R. – Il coronavirus è riuscito a prostrare un continente come l’Europa, un Paese come l’Italia che ha un sistema sanitario tra i migliori al mondo in termini di qualità delle cure, accessibilità a tutti. Se un virus riesce a fare questo, possiamo solo immaginare cosa potrebbe accadere in un contesto africano dove ci sono sistemi sanitari deboli, fragili in termini di assistenza alle cure, di personale formato, in termini di equipaggiamento, di farmaci a disposizione. La speranza, per quanto ancora non verificata e tutta da dimostrare, è che il virus sia meno virulento a temperature elevate. E’ vero però che un caso si è manifestato ad Addis Abeba che è a 2500 metri di altezza e invece, fortunatamente, non abbiamo casi in Sud Sudan dove le temperature sono molto elevate. Rimane il dato certo che la situazione dei Paesi africani è difficile, per esempio, non sono attrezzati con le terapie intensive, alcune nazioni non hanno rianimazioni. Questo dimostra quanto è grave la debolezza in termini sanitari dei Paesi dell’Africa.

Quali i Paesi più fragili?
R. – Non c’è dubbio che l’Africa sub-sahariana è il cuore del problema sanitario. Ci sono dei Paesi poveri ma non fragilissimi, ad esempio la Tanzania e l’Uganda hanno un sistema di istruzione e sanitario strutturato. In maniera sistematica emergono casi di ebola e si risponde in modo efficace. Ci sono Paesi come il Sud Sudan dove manca proprio il sistema sanitario, manca il personale sanitario, non ci sono ostetriche, non ci sono infermieri. Poi ci sono Paesi poveri ed estremamente fragili come la Repubblica Centrafrica o la Repubblica Democratica del Congo.

Qual è la situazione secondo le testimonianze dei medici che avete in loco?
R. – I medici sono preparati. Noi stiamo predisponendo il materiale di protezione per loro e anche materiale di contenimento del virus quindi mascherine, guanti, camici, gel alcolici. In Etiopia, abbiamo una tenda che serve da camera di isolamento per i pazienti sospetti. I medici che sono lì, come i medici italiani, si dedicano completamente, non guardano gli orari, hanno un approccio attento perché sono consapevoli che se il virus intaccasse sulle fasce più deboli sarebbe davvero un’ecatombe.

Lei prima ha citato le esperienze di Tanzania e Uganda, alcuni analisti africani affermano che, a fronte di strutture fragili, il continente ha sviluppato una capacità di gestire le epidemie rispetto ai Paesi europei. E’ effettivamente così?
R.- E’ verissimo ed è il motivo per il quale il virus ha tardato ad entrare in Africa. Sono fiducioso che si riuscirà, non in tutti i Paesi, a fronteggiare l’emergenza. Il fatto che ci sia stata l’ebola, un virus che ha massacrato i Paesi africani, ha fatto sì che ci sia una preparazione migliore rispetto all’Europa. Faccio un esempio, io sono tornato la settimana scorsa dal Sud Sudan, negli aeroporti dove ho sostato a Juba, ad Addis Abeba, ci sono i termoscanner. Quindi la temperatura viene controllata, se si registra un innalzamento si procede a misurarla ancora una volta, constatata la febbre si viene messi in quarantena. Questo meccanismo, frutto dell’esperienza dell’ebola che ha portato ad acquistare strumenti specifici, ha secondo me rallentato l’ingresso del virus in alcuni Paesi. Penso all’Etiopia che ha voli costanti con la Cina, nonostante tutto questo Addis Abeba ha contenuto bene il virus, dopo di che sappiamo la grande capacità di diffusione del virus e speriamo che si riesca a contenerlo, ma dipende da Paese a Paese e ce ne sono alcuni in Africa che sono molto fragili.