La sedia, Facebook e il catechismo

Per comunicare la fede oggi. Mons. Pompili: «Prima viene il catechista, poi la catechesi, quindi il catechismo».

È stato a partire dal video con cui Facebook ha celebrato il primo miliardo di utenti che il vescovo Domenico ha dato vita al suo primo incontro con i catechisti della diocesi. Un incontro svolto domenica 26 ottobre nell’Auditorium dei Poveri di via Garibaldi a Rieti e che è proseguito nella Cattedrale con la Messa e la celebrazione del mandato.

A colpire della clip del social network è «sia il linguaggio che il modo in cui rende evidenti i significati della rete. Quelli più immediati ed espliciti, come il desiderio di relazione, ma anche quelli più timidi eppure presenti, come la domanda di infinito, di “ulteriorità”». Facebook viene presentato «come un luogo “fatto per le persone”, facilmente accessibile, senza distinzioni di sorta: chiunque può sedersi su una sedia. Un luogo che la gente può “considerare come proprio”, in cui sentirsi a proprio agio. Dove incontrarsi, scherzare, scambiare idee, condividere musica. Ma è anche un posto dove insieme si possono condividere domande più grandi: “L’universo così immenso e oscuro che ci domandiamo se siamo soli. Forse il motivo per cui facciamo tutto questo è per ricordarsi che non lo siamo”, è la suggestiva chiusa della clip».

Ma ovviamente il vescovo non era interessato a fare pubblicità al social. Il suo è sembrato piuttosto un invito ai catechisti a comprendere e far proprio il punto di vista dei “nativi digitali”, con il loro mondo fatto di app da scaricare e il loro essere pienamente immersi in un flusso che fa dei mondi fuori e dentro la rete un tutt’uno rispetto al quale occorre trovare una «“porta” d’accesso» in quanto «luogo di una domanda possibile che va intercettata». Il discorso è stato dunque su come cambia l’educazione nel contesto digitale e su ruolo del catechista quale comunicatore della fede «chiamato non tanto a trasmettere un sapere, quanto a favorire un incontro».

Quindi il vescovo ha invitato i catechisti ad ascoltare il contesto, cioè l’ambiente e la cultura digitale, a prendere coscienza del mondo «iperconnesso» in cui viviamo, caratterizzato dalla convergenza (il cellulare), dalla perdita dei confini tra i media e l’ambiente e dall’essere perennemente connessi, anche fuori casa.

«In sintesi – ha spiegato don Domenico – non “usiamo” strumenti, ma “abitiamo” un ambiente “misto”. E come in ogni ambiente, in parte ci adattiamo, in parte lo plasmiamo sulla base dei significati che riteniamo importanti». Una situazione da sommare all’aumento dei “nones”, dei ragazzi privi di ogni affiliazione religiosa, che richiede un profondo ripensamento delle modalità di educazione alla fede. Ad esempio tenendo conto di come nell’era digitale della partecipazione «il vero educatore è chi sa lasciarsi educare, ascoltare il contesto, lasciarsi interpellare dalle domande, delle inquietudini, anche dalle provocazioni e riformulare il proprio sapere sulla base delle esigenze del presente». Per riuscire efficaci, il vescovo ha spiegato che occorre «uscire dall’idea di un sapere come “deposito” e mobilitare le potenzialità di farsi sapienza viva»: è di fronte ai “testimoni” che «i giovani sono disposti ad ascoltare, e lo fanno con interesse».

Il che non toglie il problema di trovare il giusto linguaggio. Il vescovo ha indicato la necessità di una comunicazione «che sia non fredda e cerebrale, ma coinvolgente e multitasking». Una comunicazione, cioè, «che coinvolga tutta la persona, con la sua corporeità e affettività, e non solo la mente», cercando però di non cadere nel «doppio rischio “del teatro e dell’armeggio” (esteriorità esasperata) e del devozionismo individualistico». Ci vuole equilibrio e il linguaggio verbale non va certo messo da parte, ma deve rinnovarsi e recuperare tutta la sua capacità simbolica.

Il comunicatore della fede «deve essere capace di farsi “medium”» avvicinare il ragazzo a Dio, essere un “facilitatore”, un “presentatore”, un “custode” «che si preoccupa che le porte siano sempre aperte, e che tutti si sentano accolti e invitati ad entrare». ma uno degli spazi della relazione, non si può «lasciare questo ambiente, così importante per tanti, completamente sguarnito della proposta cristiana». Da questo punto di vista il mons. Pompili ha invitato a non cedere allo scoramento, a non «rinunciare, né arroccarci su prassi ormai inefficaci e sapendo di operare in un contesto difficile, avendo anche degli errori da scontare» perché dai tentativi emergeranno «nuove forze, nuovi comportamenti, pur ancora incerti, ancora senza nome» attraverso i quali scrivere al presente il nome di Gesù.

Un più ampio resoconto della lezione del vescovo è disponibile sul numero 39 di «Frontiera», in edicola dal 30 ottobre.